Padre Noir

Solo il pensare questo nome un giorno mi avrebbe fatto

rabbrividire e raggelare il sangue nelle ve ne.

Oggi invece devo ringraziare proprio lui, padre Noir, se

la mia vita un tempo per causa sua scombussolata e traumatizzata

ora procede così serena, così piena di gioia e di

grazia. Grazie, padre Noir, del “male” che mi hai fatto, di

avermi annientato, perché senza di te oggi non potrei sperimentare

la gioia di risorgere!

Se tu non mi avessi gettato nel buio, non potrei ora

gustare così intensamente la luce; se tu non mi avessi così

bene nascosto Dio, forse non desidererei così ardentemente

come ora di cercarlo e forse mai avrei scoperto le nuove

vie sulle quali Lui camminava per venirmi incontro.

Se tu allora non mi avessi tolto tanto, Dio oggi non

m’avrebbe potuto dare così abbondantemente.

Signore, hai cominciato a farmi capire, proprio attraverso

padre Noir, che non tutto il male viene per nuocere,

anzi che per Te tutto, proprio tutto, anche ciò che per noi

è male, può essere tra sformato in bene e in grazia.

Grazie, Signore, per aver messo padre Noir sul la strada

della mia vita, e per avermi fatto uscire da quella strada

solo quando ciò è stato considerato giusto dalla tua misteriosa

volontà. Erano circa due anni che mi trovavo a

Gourly quando padre Sonne, il rettore della parrocchia,

venne trasferito a Gremelly.

Egli lasciava con dispiacere la parrocchia, ma anche

noi eravamo addolorati per questo distacco.

Pur con tutti i suoi limiti e difetti, padre Sonne per me

era stato un riferimento, una guida, un aiuto amico in quel

periodo in cui io, giovane prete an cora inesperto della vita

pastorale, iniziavo il mio servizio di sacerdote.

Vederlo ora andar via mi faceva sentire quasi co me un

po’ orfano. Il suo successore era padre Noir, un alto prela -

to con i capelli bianchi, pur non essendo molto anziano,

con uno sguardo che mi pareva un po’ sfuggevole e che mi

aveva dato subito l’impressione di essere come alla continua

ricerca di qualcosa.

Una domenica mattina si era celebrato il suo solenne

ingresso in parrocchia, iniziato con l’arrivo di una schiera

di cavalli bianchi e di alcune carrozze in grande stile, che

si addicevano bene a quel degno rappresentante del

Signore Risorto che si accingeva a prendere in mano le

redini della vita di fede in quella nuova comunità.

Mentre tutti eravamo ancora in attesa di inizia re il corteo

che dalla vecchia piazza avrebbe accompagnato il

nostro nuovo pastore alla sua se de, quando da poco padre

Noir, sceso dalla car rozza si era messo in attesa, in piedi,

accanto al piccolo sindaco che in quell’occasione pareva

ancora più basso, ecco che un cavallo bianco poco di stante

da loro, dopo aver agitato la coda quasi come un avviso,

impiastrò la strada con i suoi bi sogni.

Fu come il “via” dato al corteo della gente, che muovendosi

piano piano ed evitando ciò che il bianco cavallo

aveva da poco lasciato per terra, si avviava verso la chiesa

parrocchiale per dare il benvenuto, con la messa solenne,

al novello pastore del gregge. Dopo solo pochi mesi mi

resi conto di essere veramente rimasto orfano: questo

nuovo pastore, pur con tutta la sua buona volontà, la sua

convinzione e il suo impegno, pur con tutta la mia dispo -

nibilità a considerarlo come segno e strumento di Dio, mi

lasciava alquanto perplesso per quel suo modo di essere e

di fare, che provocava in me continui smarrimenti e negazioni

al mio essere sacerdote.

Percepivo un pò ‘ alla volta che Dio mi stava pre -

parando delle prove, che il paradiso adesso era finito da

godere, bisognava ora iniziare a guadagnarlo, sopportando

e offrendo al Signore le prove che Lui per me avrebbe permesse

tramite il suo servo padre Noir.

Disponendomi in questo atteggiamento tutto al l’inizio

mi sembrava possibile da vivere; ma dopo un po’ di tempo

i tanti buoni propositi, la for za di volontà e di sopportazione

e le belle intenzioni dovettero soccombere di fronte alla

persona travolgente di padre Noir.

Mi stupivano le sue sicurezze e l’intransigenza riguardo

a quelle che egli presentava come le realtà di Dio. Non

me la sentivo proprio di avere quelle certezze che egli pretendeva

da me e che – lui lo ri marcava di fronte alla gente

– erano l’unica garanzia necessaria per la salvezza della

anima. Io tremavo di fronte alla decisione di doverle as -

sumere e proclamare con quella sua estrema sicurezza;

non avrei mai potuto farlo, non ci sarei mai riuscito, nemmeno

volendo; e poi, il Signore davvero mi stava chiedendo

questi atteggiamenti?

Fu l’inizio della mia crisi.

Ora stare in chiesa, là nel confessionale, mentre dal

pulpito tuonavano ripetutamente improperi, giudizi, rimproveri

e visioni negative della vita, lamenti e continui

richiami, diventava per me un tormento continuo e sempre

più sofferto.

Quella non era già più la mia chiesa che mi faceva sentire

a mio agio, che mi offriva serenità; i miei occhi poi

faticavano a distinguere il sorriso del Crocifisso, trovandosi

di fronte solo questa realtà impeccabilmente seria e

inderogabilmente severa.

Iniziavo a sperimentare il dovere della sopportazione

più da vicino e sempre più lontana la gioia della grazia.

Dov’erano finite la speranza, la luce, la gioia, la serenità,

la dolcezza?

Ma sì che ci dovevano essere, e non erano state un

sogno per me: le avevo da sempre sperimenta te prima,

anche quando le parole dei sacerdoti era no poche e povere,

anche quando le chiese erano un po’ buie; le cose anche

allora andavano male, ma si affrontavano ugualmente con

serenità. Ma sì, certo che aveva valore la messa celebrata

da padre Noir: come ogni altra eucarestia, era il dono di

Dio per noi; ma perché questa era così mal vissuta, sopportata

e non serena?

Perché adesso sperimentavo sempre in misura minore

tutte quelle realtà tanto belle ed affascinanti che mi ave -

vano finora accompagnato nella vita della fede? Parlando

con la gente intuii che anche secondo loro non era una

questione di prediche lunghe o brevi, di toni alti o dimessi

della voce, ma di ricevere o no la serenità e l’aiuto: la

messa deve aiutarci sempre ad incontrare Dio, non si deve

giungere al punto di averlo incontrato nonostante la messa

alla quale si ha partecipato.

Presi allora la decisione di stare distratto volutamente

durante la messa di padre Noir, pensando alle mie cose e

pregando Dio che facesse Lui il resto con la sua grazia.

Solo così pensavo di poter riuscire a trattenere ancora

un po’ di quella serenità che sempre più mi stava sfuggendo
da quando, chiuso nel mio confessionale, ero presente

durante le messe celebrate da padre Noir.

E il mio disagio, naturalmente, continuava ad acuirsi.

Parlare di questi miei problemi con lui in per sona, con

padre Noir? Era impossibile, me n’ero ormai convinto.

Mi ero accorto infatti che lui parlava a me, di fronte a

me, di me, per me, ma mai si era ritrova to a parlare con

me, a dialogare. All’inizio, quando lui da poco era giunto

in parrocchia, mi recavo spesso e volentieri anche in casa

sua, ma a poco a poco compresi di essere a disagio, di

costituire per lui quasi un impiccio, di non potergli parlare

come volevo; che chissà perché ma non ci riuscivo proprio,

che era inutile chiedere e tentare un dialogo.

Invidiavo allora il suo gatto, perché notavo che ad esso

lui si rivolgeva spontaneamente, come fosse stato una persona

amica: “Fufino, per fortuna ci sei tu qui con me...

cosa mi dici? ma lo sai che...”. Perché mai, maledetto

gatto, io non riesco ad entrare in dialogo con lui, con il tuo

padrone? Boh!

Ogni discorso che tentavo di costruire cadeva nel vuoto

o nella tazzina del caffè; e allora osservavo con invidia

quel gatto rosso al quale avrei vo luto dare come sfogo una

gran pedata... squillò il telefono e padre Noir si recò a

rispondere di là, nel suo studio, ed io realizzai il mio

amato desiderio. Il gatto, ben colpito, con un forte improvviso

miagolìo si dileguò in giardino dalla porta socchiusa

della terrazza.

E le cose peggioravano col trascorrere del tempo.

Si era creata ormai una sempre più profonda frattura

nel nostro modo di vivere e di svolgere l’identico sacerdozio

che il Cristo ci aveva affidato come un servizio in

quella parrocchia.

Come due calamite girate una da una parte e l’al tra

dalla parte opposta e che si cerca di fare avvicinare, ci

respingevamo fortemente l’un dall’altro, allontanandoci

già col nostro modo di vivere, poi nel fare, nel parlare, nel

testimoniare, nel programmare.

Le iniziative che partivano dall’uno non trova vano da

parte dell’altro né sostegno né aiuto, ma solo silenzio,

indifferenza e a volte anche contrarietà.

Fu così che anche ogni mia iniziativa un po’ per volta

annegò mandandomi più che mai in crisi.

Con mia grande gioia si era riusciti a radunare un folto

gruppo di giovani collaboratori attorno alla proposta di

costituire un giornalino, espressione della realtà dell’oratorio,

che avevamo intitolato “Hello!” quale augurio di

gioia e di vita. Pensavamo che tale iniziativa inaspettata

sarebbe stata accolta da padre Noir come una gradita sorpresa.

Fu così una forte batosta sentirci dire da lui che

l’idea non poteva assolutamente proseguire, per ché già

esisteva un bollettino della parrocchia, e solo attraverso

quello si doveva passare perché quel tipo di nostra iniziativa

potesse avere un buon esito.

E così, nonostante un po’ di malcontento e di ri -

mostranze da parte dei giovani collaboratori, si giunse alla

decisione di rimangiarsi l’idea - sorpresa e ogni altra iniziativa

in questo senso, per non compromettere ulteriormente

il già incerto rap porto che avevamo con padre Noir.

Proprio in quella occasione infatti avevamo an che tentato

di far presente a lui alcune realtà che, a nostro avviso,

non procedevano bene nella parrocchia, e avevamo anche

dato alcuni suggerimenti..., ma di fronte all’improvvisa

reazione di padre Noir che prima piangendo, poi battendo

fortemente i pugni sul tavolo, poi scuotendo mesta mente

il capo, si era rifugiato nel suo studio sbattendo la porta,

eravamo rientrati tutti alle nostre case, senza fare tanti

commenti sull’accaduto, con il chiaro proposito di non

fare più del male a padre Noir, convincendoci che la colpa

era nostra e quindi non avremmo più dovuto fargli quelle

osservazioni che lo avrebbero fatto stare male e piangere,

compromettendo la sua serenità... quella serenità che io

vedevo ormai sempre più lontana da me!

Dopo il fallimento di questa iniziativa, personalmente,

ritenni cosa positiva e fattibile, non in contrasto con padre

Noir, il poter seguire più da vicino il gruppo dei ragazzi

che come catechista io stesso avrei animato e con il quale

svolgere iniziative diverse, di gioco, di recita, di tipo spirituale,

ricreativo.

Ma la cosa non durò a lungo: padre Noir mi richiamò

osservando che non si era stabilita quell’iniziativa nel contesto

dei programmi pastorali del la comunità. Inoltre, quel

gruppo veniva troppo seguito, e la predilezione non si confaceva

alla realtà evangelica di essere tutti uguali di fronte

a Dio. Infine, c’era anche il fatto che il dialogo per -

sonale che cercavo di fare con i ragazzi avrebbe potuto

essere positivo, ma con le ragazze avrebbe potuto creare

invece ambiguità e malintesi, cose queste che si sarebbero

certo evitate abolendo tutto.

E fu un’altra dolorosa botta.

Mentre cercavo di riprendermi ed orientarmi verso

nuove realtà che avrebbero potuto dare significato non

solo al mio essere, ma anche al mio fare il prete, padre

Noir mi sottolineò che non era affatto educativo che ai

nostri chierichetti venissero elargite da parte mia mance in

denaro; che se avessi avuto dei problemi per offrire una

merenda dopo il loro servizio alle celebrazioni, ci avrebbe

pensato lui stesso, portandoli a casa sua.

Pensò a fare questo e, dopo breve tempo, an che ad affidare

la direzione del gruppo dei chierichetti a un chierico

della parrocchia. Di fronte a queste e alle altre delusioni,

mi accorgevo di perdere a poco a poco il mio spirito di iniziativa,

la mia serenità, la mia fantasia.

Il mandare giù mi creava, in quel periodo, uno spirito

di passività apparente ed esteriore, mentre dentro di me si

agitavano sempre più aspirazioni, tensioni, idee, desideri

che continuamente soffocati mi facevano stare male anche

fisicamente. Me ne accorsi quella mattina, sputando bocca -

te di sangue nel lavandino; dopo la visita d’urgenza, la diagnosi:

gastrite acuta e ulcera perforata al duodeno, da curarsi

soprattutto con l’eliminazione della causa: i disagi psicologici

dai quali il pa ziente si trovava sempre più oppresso.

Già, ma come fare per eliminare questi?

Sapere di avere un buco nel duodeno mi aveva reso un

po’ sereno, perché questa ulcera col suo dolore mi richiamava

che la vita era breve e con es sa le gioie e anche i

disagi che uno poteva speri mentare.

Proprio la precarietà della mia situazione mi rendeva

un po’ più sereno... grazie, ulcera!