Quella margherita che m’avevi infilata nella fessura del
bagagliaio dell’auto! Durante tutto il viaggio da Gourly fino
a Weil, dove si trovava la casa di zia Delcy, avevo già pian -
to come mai nella mia vita, mai così profonda mente e così
intensamente, mai sfogandomi così liberamente come in
quei momenti, percorrendo quelle strade sulle quali sapevo
che nessuno mi avrebbe potuto notare né riconoscere.
Quel pianto che mi avevi insegnato tu,... a piangere di
gioia, d’emozione, di meraviglia, di nostalgia, di gelosia,
d’amore... E mi ero calmato un po’ solo ora, mentre, av -
vicinandomi alla antica villa, scorgevo zia Delcy, là sulla
porta ad attendermi. Mi ero asciugato alla meglio e in fretta
le lacrime dagli occhi, proponendomi di non piangere da -
vanti a lei, almeno mentre ci scambiavamo i sa luti,... Ma
quella margherita, che tu mi avevi infilata nella fessura del
bagagliaio dell’auto, mentre mi accingevo ad aprirlo per
togliere le mie valigie, appena la vidi, mi fece di nuovo
esplodere in un im provviso pianto a dirotto ed incontrollato.
Zia Delcy, pensando che fosse per la mia nostalgia verso
Gourly, mi lasciò fare, anzi, mi si avvicinò sussurrandomi:
“piangi, piangi, sfogati, che ti fa bene... intanto io vado dentro
a prepararti un buon caffè... ti aspetto in cucina”.
Quella margherita!.. ; quanti ricordi!.. ; essi ora si intrecciavano
dolcemente a tutti i miei ricordi che avevo lì, in
quell’antica casa, luogo della mia felice infanzia, dei
momenti più belli della mia vita di fanciullo; dove ritrovavo
le vecchie e sbiadite foto con gli zii, con i cugini, con la
famiglia, e le foto di me, in bianco e nero, di quand’ero an -
cora piccolo. Questa casa nella quale la mia fantasia e la mia
memoria ogni volta giocavano sempre più serena mente per
ricostruire il mio passato ed aiutarmi nell’affrontare il presente.
Questa casa che da sempre mi regalava serenità e riposo,
e che ora avevo scelto come luogo do ve approdare subito
dopo tutte quelle bufere vis sute a Gourly, per potermi qui
calmare un poco...
“Guarda che il caffè è pronto...” disse dolce mente zia
Delcy, affacciandosi alla porta d’ingresso, vedendomi ancora
lì assorto, con una margherita tra le mani.
Quella sera del saluto c’era tutta la Company, non mancava
proprio nessuno.
Accanto alla serenità del potersi finalmente ri trovare
assieme dopo quel lungo periodo di lontananza reciproca, si
leggeva sui nostri volti già la nostalgia della separazione, del
doversi dire ad dio già il giorno dopo.
Si discorreva del più e del meno, si cercava di fa re qualche
battuta, ma erano i silenzi ed i sospiri a dominare l’atmosfera.
E quando i miei occhi incrociavano i suoi, era per me
una stretta al cuore e una fitta alla gola, mentre alzavo lo
sguardo verso l’alto come per un ultimo disperato perché...
Non riuscivamo a trovare l’occasione di parlar ci da soli,
essendo lì con tutti gli altri, ma i nostri occhi, il nostro cuore,
il nostro sentirci vicini nel l’intensità della vita parlavano e
comunicavano per noi.
Cercavamo entrambi di fare il possibile per gustare gli
ultimi attimi di intensità di quelle nostre emozioni, che venivano
ricoperte ora dall’immensa nostalgia di doverci separare
e di sentirci sempre più lontani.
Ripensavo a tutte quelle volte che ci dicevamo: come
potrei vivere anche solo un attimo senza di te?. Mi ucciderei!
Ed ora io l’avrei fatto certamente, se in me non ci fosse
stata quella certezza misteriosa che mi garantiva che, anche
se le cose mutavano in modo così drastico, la nostra amicizia
non sarebbe mai venuta meno.
Quella certezza che mi convinceva che proprio in quel
momento, morendo con la scelta di allontanarmi da te, ti
stavo veramente amando nel modo più vero e profondo; che
così stavo compiendo non solo il tuo bene, ma offrivo anche
a te la possibilità di fare ciò che era bene per me.
E così questo perdersi non mi sembrava più tan to amaro,
perché esso si rivestiva sempre più di un amore nuovo che io
avevo sempre lasciato forse un po’ in disparte nelle mie considerazioni.
Infatti capivo che mentre ti lasciavo così, ti fa -
cevo vivere, e tu mi ridonavi la vita; che questo nostro amarci
non avrebbe mai smesso di essere – usando quell’immagine
che mi piaceva tanto – come quell’elastico che ci teneva
legati e che, fin ché eravamo vicini, ci faceva vivere sereni,
e quando ci allontanavamo uno dall’altra, creava sempre
più tensione e desiderio intenso di amore; e quell’elastico
non si sarebbe spezzato mai!
Mi accorgevo allora che stavo un poco alla volta ridiventando
sereno perché, nonostante l’immensa nostalgia di quel
momento della separazione, le cose si stavano risolvendo
per il bene di entrambi; e quell’esperienza con te non sarebbe
finita lì, ma ora cambiava solo nel modo di essere vissuta:
da immatura; confusa e contrastante a più matura, più
chiara e più serena.
Capivo anche che non avrei più potuto dire, in seguito,
nemmeno per scherzo, come ero solito dirti a volte: facciamo
l’amore? (questa era la mia battuta più folle verso le
ragazze), ma sapevo anche che fin da questo momento ti
avrei potuto dire parecchie altre cose molto più profonde e
bel le, come: sei la mia stessa vita, puoi contare sempre su di
me, la nostra amicizia è eterna... Ero entusiasta perché mi
accorgevo che, men tre proprio ora pensavo di averti perduta,
rinunciando a te, ti sentivo inaspettatamente ridonata a
me in un modo più pieno, più vicino, più autentico e più profondo.
E dirti: ti amo? Prima era un contrastato desiderio, un
amarti ma anche un volerti amare di più, mentre non potevo.
Dirti ora: ti amo, significava vivere la realtà d’a more con
te più profondamente, sentire di amar ti come me stesso; e
non solo ora potevo, ma, ero convinto, dovevo amarti, in
coscienza. Sorridendo pensavo a questo controsenso: ora,
rinunciando a te decidendo di non comprometter mi più, mi
trovavo compromesso più di prima: avevo rinunciato a te in
un certo modo, ma così ti avevo scelta in un modo più profondo.
Sempre sorridendo, immaginavo che, a questo punto,
unirmi a te definitivamente sarebbe stata la scelta più logica
e più realizzabile di tutte... piuttosto di rompere la nostra
amicizia... “piuttosto ti sposo” ti avevo scritto, tentando di
farti capire che tu mi avevi regalato una briciola di eternità
attraverso il nostro volerci bene, e ad essa mai più avrei
rinunciato, perché con quella briciola c’era la mia stessa vita.
Ed il tramonto di quest’ultima sera insieme, che mi
avrebbe in un altro contesto forse richiamato il fatto che tutto
si deve lasciare e finisce, già invece mi faceva pensare adesso
all’alba del nostro nuovo amore, del nostro vivere uno e
l’altra non più insieme, ma ora sempre più uniti. Questi contrasti
ed assurdità che adesso continuavano e che prima mi
avrebbero mandato in cri si, ora mi rendevano felice, perché
vedevo che a poco a poco ogni realtà si rivestiva di quella
misteriosa certezza che mi garantiva gioia e serenità.
Ripensavo a quando, frequentando i bar lì a Gourly,
avevo imparato che non erano i luoghi ad essere buoni o cattivi,
positivi o negativi, belli o brutti, ma che era il cuore di
chi vi entrava a renderli tali... il mio cuore era cambiato,
facendo cambiare ora la mia vita. Con la celebrazione della
messa del mattino al le ore 7.00, domenica 5 marzo di quest’anno,
cessavo di essere coadiutore a Gourly.
Non dissi una parola di commento riguardo al fatto della
mia improvvisa partenza... e pensare che anche solo un po’
di tempo prima, quando immaginavo il mio saluto ufficiale
della partenza, con tanto di messa solenne, con il coro, con
tanti giovani, con la gente che piangeva, varie volte ave vo
anche provato a recitare il mio discorso d’addio nel quale
avrei finalmente chiarito ogni mia ragione nei confronti di
padre Noir, facendolo sfigurare lì, davanti a tutti; e quindi
andandomene a testa alta, con il saluto di tutti, il grazie della
gente, i molti regali e gli unanimi commenti ascoltati con
piacere: “come l’era brao!”... Ora invece mi trovavo lì a
celebrare quella messa del primo mattino, con quella presenza
di gente di ogni domenica normale... in più solo qual che
persona, che il giorno prima, sentendo della mia partenza, si
era fidata della notizia, mentre i più l’avevano creduta uno
dei miei soliti scherzi e non ci avevano fatto caso. In quella
messa mi ero proposto di non dire nulla a commento dell’esperienza
con padre Noir, del fatto che me ne andavo...
avrei voluto dire tante cose, ma, ricordandomi di quello che
tu mi avevi scritto concludendo una tua lettera: “ho pensato
che le cose vere si dicono nel silenzio”, tacqui a questo
riguardo. E tu, con la Company, vi eravate eccezionalmente
messi nel primo banco, in questa celebra zione, e con la
vostra presenza mi stavate dicendo il più bel grazie di fronte
a questa mia decisione di tacere.
“Nel nome del Padre, del Figlio...” iniziai, ripetendomi
sempre poi, durante la celebrazione: non devo commuovermi
né piangere, devo celebrarla come se fosse una messa
come ogni altra... piangerò e mi sfogherò dopo, quando sarà
conclusa, ma adesso no... non devo...
E ripetendomi queste parole nella mente, pro cedevo con
tono calmo e rilassato, controllando che il mio pianto e
l’emozione non mi tradisse ro... e ci stavo riuscendo.
“Fratelli, oggi il brano del vangelo ci ha presentato la
parabola del figlio prodigo, che è anche detta la parabola del
padre misericordioso, perché sottolinea l’amore di questo
padre. Questo figlio che quindi lascia suo padre...”.
Chi rappresentava in quel momento il figlio prodigo?
Io – pensai subito – che me ne andavo via da padre Noir,
io che lasciavo Gourly; e padre Noir, era allora il padre amoroso?
lui, che aveva fatto di tutto perché suo “figlio” se ne
andasse? Ma mi limitai a commentare: “Ognuno di noi qui
presenti, come questo figlio, spesso abbandona Dio e se ne
va dalla sua grazia.
E quel figlio se ne era andato, con la parte di eredità ricevuta;
e la sperperò con le prostitute...”.
Già, ripensandoci, prostitute come quelle con le quali, in
uno dei giorni delle mie crisi più nere, io ero stato tentato di
andare a sperperare il bene del mio sacerdozio e della grazia,
che il Padre mi dava...
“Ma dopo che si rese conto di ciò che aveva fatto, tornò
da suo padre, che attendeva già, da sempre, il suo ritorno, e
che, appena lo vide, si commosse, gli corse incontro e lo
abbracciò”. E chi era allora questo padre? Padre Noir certamente
era convinto di rappresentarlo lui, in quel momento,
quel padre: io me ne andavo da lui, sperperando i suoi
insegnamenti, le sue direttive, il suo educarmi, il suo voler95
mi bene, la sua parola di Dio; ma, un giorno, ravvedendomi,
gli avrei poi chiesto perdono e lo avrei cercato di nuovo, perché
era lui il padre buono e amorevole. Questo padre in quei
momenti era senza dubbio Dio, che mi attendeva a braccia
aperte dopo tutte quelle esperienze incredibilmente traumatiche
nelle quali avevo sperperato me stesso; e ora era giunto
il momento di ritornare da Lui, alla sua serenità, alla sua
vita, alla sua Verità. “E fecero festa; e il figlio maggiore, che
stava sempre col padre, non capì e si arrabbiò, ma il padre
gli disse: non ti accorgi che facciamo festa per ché tuo fratello
che era morto è tornato a vive re?”.
E chi era questo figlio maggiore se non padre Noir, che,
sempre legato alla sua fede, fedele alla sua chiesa, amante
del suo dio, non si accorgeva affatto del fratello che si stava
perdendo, che sta va morendogli accanto?. E non voleva far
festa, a nessun costo, nemmeno ora, vedendo che andan -
domene via tornavo ad essere sereno, tornavo al la vita, a
Dio... “A me però è sempre piaciuto paragonarmi al vitello
grasso, forse anche per la mia corporatura – conclusi rivolgendomi
ai fedeli con un ultimo sorriso.
Pensate che esso è stato ucciso per festeggiare il ritorno
del figlio minore dalla morte alla vita. Per mezzo della sua
uccisione si è festeggiata la nuova vita”.
Se io rappresentavo quel vitello grasso, ero mol to contento
ora di venire ucciso, di morire lasciando Gourly, affinché
si potesse festeggiare il ritorno al Padre di padre Noir, di lui
che, lasciando la morte delle sue cose, si sarebbe, chissà
quando, potuto avvicinare così alle realtà di Dio ritrovando
la gioia della festa, della serenità, della vita,... delle cose
belle che io stavo ora ritrovando.
Capii allora che lasciando il paese di Gourly a quel modo,
“come un cane”, – usando l’espressione di non ricordo chi –
in soli due giorni, io costituivo quel segno profetico che il
Signore mi ave va un giorno fatto intravedere di dover essere.
Con questo modo di partirmene ero il segno di Dio anche
per padre Noir, di fronte al quale il Signore poneva questa
mia drastica decisione per ché egli, avendo la possibilità di
scuotersi e di al lontanarsi dalle proprie mortali certezze, si
potesse avvicinare di più a Lui.
L’avrebbe fatto?
Padre Noir avrebbe accolto questo segno?
Non dovevo essere io a cercare come sarebbero andate a
finire le cose; il segno profetico era sta to posto attraverso di
me, soltanto a padre Noir spettava ora la responsabilità della
risposta. Non riuscii a mantenere fino all’ultimo il mio proposito
di non piangere durante la celebrazione: mi ero troppo
emozionato di fronte alla sor presa che voi della Company
mi avevate fatta, quando, al momento dopo la comunione,
aveva te letto la vostra preghiera: il Signore ti ripete oggi:
vai, non temere, non sei solo, io sono sempre con te!
Grazie per quello che tu sei stato per noi.
Forse a volte non abbiamo saputo capirti, e quando magari
avevi bisogno di aiuto, ti abbiamo lasciato solo.
Preghiamo che il Signore ti aiuti a rimanere disponibile a
Lui e ai fratelli ai quali sarai inviato, te nendo vivo quel suo
dono che hai ricevuto con l’imposizione delle mani del tuo
vescovo.
Mentre stavo ascoltando, tenendo con diffi coltà sotto
controllo la mia intensa emozione, dal fondo della chiesa mi
avevate portato un mazzo di bianchi gigli... il simbolo della
purezza!
Fu al vedere davanti a me quei fiori che mi venivano
indegnamente offerti, che scoppiai a piangere di fronte a
tutti... fu questo il mio ultimo saluto.