Introduzione

Ti adoro, mio Dio,
ti amo con tutto il cuore,
ti ringrazio di avermi creato,
redento, fatto cristiano e sacerdote;
di avermi fatto giocare con Te,
del tuo prenderti gioco di me;
di avermi fatto capire
che anche Tu sei un birichino,
che sei un Dio sempre sorridente
non nonostante tutto
ma attraverso tutto.
Ti ringrazio perché giocando con l’amore
sono stato giocato da Te che sei Amore.

Gourly

Giovedì 15 aprile, quest’anno.

Si sono un po’ meravigliati quelli della tipografia quando,

dopo i primi accordi per la stampa del libro, si sono

sentiti dire che il testo non era ancora scritto, ma era solo

nella mia mente. L’amministratore continuava a parlare

con me, ma dentro di sé, ci scommetto l’osso del collo,

pensava di avere a che fare con un prete un po’ matto e che

ne stava combinando una delle sue...

Io stesso, mentre poco prima lo attendevo in quel

moderno salottino, mi chiedevo se fosse an cora il caso di

fare questo passo o non invece di la sciare lì tutto. Fissavo

la porta d’ingresso ed ero quasi tentato di uscire abbandonando

tutto il pro getto, ma a trattenermi era una certezza

della quale ancora oggi mi meraviglio e che non conosco

pienamente; quella certezza che mi aveva condotto lì e mi

accompagnava fin dall’inizio in questa esperienza certo

assurda e folle, ma, inaspettatamente, anche tanto fenomenale.

Nel tornare ripensavo all’entusiasmo di quando, una

sera d’agosto di sette anni fa, giunsi, giovane prete, a

Gourly.

Durante la messa nella quale veniva celebrato un ufficio

funebre, il vicario coadiutore padre Andrew mi aveva

presentato ai fedeli, invitandoli a pregare per me e augurandomi

serenità e gioia nel servizio pastorale che mi

accingevo a svolgere in paese.

Dopo alcuni giorni già mi ero fatto alcune impressioni:

un paese tranquillo e simpatico, attorniato da sorridenti

colline, dove la gente era aperta, affabile, alla buona e con

la quale riuscivo con facilità a dialogare, per cui intravedevo

subito possibile costruire amicizie e rapporti di simpatia.

Il centro del paese aveva come cuore la sua stupenda

chiesa, che a me piaceva moltissimo non sol tanto per le

sue decorazioni e la sua architettura, ma soprattutto per il

fatto che, quando in essa non c’era nessuno, io potevo

serenamente passeggia re in su e in giù guardando in alto,

agli affreschi che richiamavano le glorie del Paradiso;

suonare al l’armonium con ogni libertà di esecuzione;

cantare facendo doppie voci e provando nuovi acuti e

nuovi bassi; camminare in equilibrio sulle balaustre e

compiendo anche qualche piccolo salto, riaccendere poi

tutte quelle candele che il sacrista Bepino aveva spente,

subito dopo la celebrazione, per evitare che, consumandosi

troppo presto, non potessero essere poi più riutilizzate.

In quella chiesa mi sentivo subito a mio agio: sentivo

Dio lì vicino, gli parlavo guardandolo ne gli affreschi; mi

rivolgevo a Lui tra una nota e l’altra, lo invitavo a cantare

con me, facendo la seconda voce, e mi pareva quasi di sentirlo;

comunicavo con Lui quando, camminando forse

troppo veloce sulle balaustre, sperimentavo quel ri chiamo

dal fondo della coscienza: sta’ attento, che cadi!. E io gli

dicevo: non con Te! e mi bloccavo di colpo sorridendogli,

là al tabernacolo, e sentivo anche Lui sorridere.

Mi immaginavo poi lo facessero anche i due angioletti

di marmo che gli stavano a fianco in atteggiamento di preghiera;

anche loro in quei momenti, sembrava si concedessero

volentieri quella gioconda distrazione.

In questa chiesa imparai poi a pattinare con le rotelle...

era uno spasso! Mentre il Bepino strofinava con lo straccio

bagnato in una parte della navata, rimanevano altre

due zone che io potevo per correre, con il suo permesso,

però a velocità ridotta, per potermi controllare con la sterzata,

al limi te del pavimento ancora bagnato.

Ma quando poi tutte le parti erano asciugate, allora era

veramente il paradiso: velocità quasi illimitata,... dopo al -

cune cadute che rientrano nell’arte del pattinaggio a rotelle,

dopo alcuni schianti contro il confessionale che si trovava

proprio sul luogo dove bisognava sterzare e non sempre

si riusciva, giunsi a percorrere in almeno venti modi

tutta la navata della chiesa. Il tutto durava per circa un’ora,

comprese le so ste di alcuni minuti parlando con il

Crocifisso, dopo aver ripreso fiato.

Ero poi riuscito, un giorno, anche a salire su, fi no sopra

l’altare di marmo, in quel luogo dove nel le solennità veniva

esposto il Santissimo per l’adorazione. Ero entrato tra

una statua e l’altra e mi ero accovacciato ben bene; e da

questa specie di nicchia avevo poi dato risposta solennemente

alle preghiere di quelle vecchiette che, quella sera,

un po’ prima del solito erano entrate in chiesa e da laggiù

avevano affidato al Signore tutti i loro acciacchi e dispiaceri.

Questa di Gourly era una chiesa che mi aiuta va a sorridere,

a stare sereno, a pregare sempre con gioia, in ogni

momento. In questa chiesa posso di re di aver realizzato

tutti i miei desideri, tranne uno: quello di rimanere in quella

chiesa per una notte intera.

Già, chissà quali emozioni e quali gioie avrei potuto provare

se vi fossi riuscito; ma nonostante avessi progettato il

tutto con cura, avendo anche informato il Bepino, che, complice,

aveva acconsentito a lasciarmi chiuso nella chiesa per

una notte, questo desiderio non riuscii a vederlo realizzato.

Di fronte alla chiesa la spaziosa piazza del centro

paese, luogo dei bar, dei negozi, degli uffici. Dopo i primi

tre giorni mi accorsi di averli già vi sitati tutti quanti, constatando

che non erano poi tanto numerosi... ma mi resi

conto anche che avrei dovuto rivisitarli meglio, senza fretta,

senza formalità, un po’ più appassionatamente e con

più fantasia, con molta umanità e sorridendo; mi convinsi

che soprattutto così dovevo cominciare a frequentare quei

luoghi, proprio come quando mi trovavo in chiesa da solo.

E fu così che iniziai, una mattina a caso, dal Su -

permarket di alimentari: “ciao a tutti - dissi entrando dalla

vetrata con la scritta: uscita – sono il nuovo curato!” e feci

un sorriso un po’ forza to, forse per il fatto che nessuno si

era interessa to subito a questo mio saluto, forse perché io

stesso ritenevo in quel momento poco convincente quel

mio modo di fare. La cassiera, una signora sui sessant’anni,

bianca di capelli, s’era voltata solo per un attimo fis -

sandomi con poca meraviglia e come per formale educazione,

poi aveva ripreso a battere sui tasti della cassa i

prezzi dei prodotti che la cliente ave va acquistati.

Non devo scoraggiarmi, non devo! – pensai ve -

locemente dentro di me – questa è la via giusta, devo continuare

così!, e mentre pensavo una soluzione, gli occhi si

posarono sulla cassa 2, alla quale non stava seduto nessuno

dei dipendenti... due passi e mi ritrovai seduto davanti

alla tastiera; un rapido sguardo a quei tasti, come per una

prova veloce, poi, rivolgendomi alla fila di carrelli che si

snodava dietro la cassa 1 dissi con tono deciso: “Sotto a

chi tocca, avanti!”.

Ma nessuna delle clienti si mosse, si limitarono tutte a

uno sguardo ironico, poi, scambiandosi quel sorriso che

voleva essere un gesto di compassione nei miei confronti,

cominciarono a commentare a bassa voce: “Al sarà mia ü

pret chel lé! Ada invece de stà ‘n ciesa a pregà, dol và!

Cosa fall, a lü?”, ed altre espressioni simili che, dette in

quel momento, sembravano essere una sentenza: hai sbagliato

tutto! Quello che devi fare ora è di chiedere scusa e

tornare a casa alla svelta!

Mentre mi stavo ormai convincendo della mia disfatta,

ecco che una signora senza carrello improvvisamente

sbucò dalla fila delle clienti e si av vicinò con passo frettoloso

e quasi nevrotico alla cassa 2.

“La salvezza!” dissi sottovoce, ringraziando il Signore.

Era una donna sui cinquant’anni e indossava una berretta

di quelle fatte di lana, un soprabito verde sporco, un

foulard di seta a fiori attorno al collo, pantaloni con ben

evidenziata la piega. Una di quelle che, a giudizio della

gente, sono delle svampite ed anche un poco ritardate...

“Mi faccia alla svelta il mio conto, che ho fretta” disse in

un tozzo dialetto quasi incomprensibile. Una scatola di

zucchero 1.330, mezzo litro di latte 1.150, un sacchetto di

palatine 500: fu l’inizio della mia carriera di cassiere.

Uscì poi in gran fretta, abbracciando i tre pro dotti, e

dovetti rincorrerla per un bel tratto di strada, perché

dimenticò lo scontrino fiscale.

“Signora, ha dimenticato...”; “fà niente” rispose lei

ormai lontana. Tornando alla cassa mi trovai di fronte una

fi la di carrelli e le donne che, prima sorridenti, ora erano

un po’ impazienti, con l’atteggiamento di chi deve andarsene

subito per la fretta e col volto che senza parlare sembrava

dirmi: “su, un po’ veloce!”.

Quando, altre volte, tornavo alla cassa, capivo com’era

importante e utile ascoltare e parlare con la cassiera, con

tutte quelle mamme, zie e nonne che, tra uno yogourt, un

etto di cotto e un pezzo di formaggio, quando non c’era la

fila, mi raccontavano volentieri di loro, della famiglia,

delle gioie, dei problemi, mi rimproveravano, mi face vano

osservazioni e richiami dicendo che noi preti potremmo

fare e non facciamo,... chiedendo poi cosa ne pensassi io

al riguardo. Mi accorgevo come quella semplice cassa era

un banco di catechismo dove imparavo la fede vissuta e

nello stesso tempo costituiva un piccolo pulpito dal quale

venivano ascoltati volentieri i piccoli sermoni interrotti

solo dal “pit” dei tasti premuti e dall’uscita tintinnante

dello scontrino del la spesa.

Fu poi la volta del tabaccaio, del benzinaio, del fruttivendolo,

della cartoleria, del negozio di abbigliamento nel

quale m’ero posto accanto al manichino del bimbo e della

mamma, e ciò era stato occasione di una vivace discussione

pro e contro il matrimonio dei preti, alla quale erano

intervenute varie persone.

Entrando nei bar per il solito caffè imparavo, oltre che

a dire una preghiera ogni volta che sentivo bestemmiare,

invece di alzarmi e fare osservazioni o, secondo l’istinto,

volendo scazzottare chi stava imprecando, che noi preti

abbiamo buon tempo quando predichiamo alla gente per

mezz’ora e più senza lasciarli fiatare; che non si può pa -

ragonare il tempo trascorso a sentire una predica con il

tempo che si passa giocando a carte: alla predica non si

può fiatare e si deve stare fermi, giocando a carte invece si

può parlare, bere qualcosa, ridere, muoversi... sono due

realtà assoluta mente diverse, e quindi certi preti come

potevano così facilmente considerarle uguali?

Mi convincevo così che non erano tanto i luoghi ad

essere buoni o cattivi, quanto era buono o cattivo il cuore

di chi entrava in quei luoghi e li rendeva tali.

Tra un negozio e l’altro, tra un ufficio postale, uno bancario

e uno comunale si incontrava la gente, con le sue

diversità, ma ognuno si mostrava sempre disponibile,

aperto, simpatico. Ero contento che il vescovo mi avesse

destina to a Gourly, perché tra quella gente mi sentivo ve -

ramente sacerdote, mandato dal Signore, ma nel lo stesso

tempo anche uomo come loro, come se fossi uno delle loro

famiglie, uno dei loro figli. Da qualcuno a volte sentivo

dire : “ol me sccièt ! ” e mentre mi voltavo e cercavo il

loro figlio mi rendevo conto che si riferivano a me, nientemeno

che a me.

Era questo un paese dove mi trovavo sempre più a mio

agio, proprio come quando mi trovavo in chiesa da solo.

Presso la chiesa sorgeva l’Oratorio, il luogo del la ricarica:

tornando dalla piazza o da qualche altro luogo, tappa d’obbligo

in oratorio, o per se dermi per un po’ su un tavolino

di pietra nel cortile, o per tirare le orecchie a qualche

malcapitato, o per giocare con qualche ragazzine, facendo

sempre qualche scherzo, o per parlare del più e del meno

con i ragazzi, con le ragazze, con chi capitava di passaggio.

E quando nell’oratorio non trovavo nessuno, una controllatina

per vedere se qualcosa si trova va fuori posto; ad

esempio, se i gabinetti erano in ordine e ancora puliti...

altrimenti, una bella lavata con il getto della canna dell’acqua

a tutta for za. La sera poi immancabile giretto al barettino

per incontrare e parlare con qualcuno.

Questi erano i momenti più belli.

C’erano certo anche i momenti “seri” in oratorio: riunioni,

tavole rotonde, catechismo, istruzioni e incontri,

momenti di preghiera; ma, chissà perché, pur ammettendo

che queste sono le cose più importanti, non mi sono rimaste

molto impresse nella memoria, anzi, mi sfuggono.

Nei momenti dei ritrovi di massa, quando l’oratorio si

colmava di persone, ad esempio a Car nevale o nelle feste

del paese, finivo poi per esse re anche un po’ triste: avevo

di fronte tanta e tan ta gente, ma per i soliti e banali motivi

organizzativi, correndo qua e là per una cosa o per l’altra,

succedeva che incontravo tutti e nessuno nello stesso

tempo. Sentivo che proprio lì mancava il dialogo, la co -

municazione profonda, e avevo come la nostalgia degli

incontri semplici e sinceri.

Dicevo a tutti ciao e poi anche quattro stupida te, auguravo

buon appetito a chi stava mangiando qualcosa, facevo

un richiamo a qualche ragazzo indisciplinato, due battute

spiritose; parlavo con uno e sentivo un altro, mentre

ascoltavo quel lo che mi stava chiamando.

Al termine di queste feste, stanco e ubriaco di parole, di

richiami, di consigli e di birra, me ne tornavo a casa barcollante

e contento che tutto si fosse concluso, e convinto

che la quotidianità era la festa più bella che ancora non

eravamo capaci di recuperare.

In questo paese venivo aiutato a vivere come uno di

loro; io, il presbitero, il pastore, la guida, mi sentivo sempre

più in cammino con loro, accanto a quella gente.

Ciò era bello... non stare a guardare che camminino le

pecore, né dire loro di camminare, ma camminare con

loro. Col passare del tempo, non solo aumentava sempre

più in me la gioia di stare a Gourly, ma addirittura sentivo

già la nostalgia di quando, un giorno, me ne sarei poi

dovuto andare. Ero certo che gente così buona non ne

avrei più trovata, e mi potevo considerare veramente

fortu nato ad aver trovato un ambiente così!

Ero entusiasta!

Padre Noir

Solo il pensare questo nome un giorno mi avrebbe fatto

rabbrividire e raggelare il sangue nelle ve ne.

Oggi invece devo ringraziare proprio lui, padre Noir, se

la mia vita un tempo per causa sua scombussolata e traumatizzata

ora procede così serena, così piena di gioia e di

grazia. Grazie, padre Noir, del “male” che mi hai fatto, di

avermi annientato, perché senza di te oggi non potrei sperimentare

la gioia di risorgere!

Se tu non mi avessi gettato nel buio, non potrei ora

gustare così intensamente la luce; se tu non mi avessi così

bene nascosto Dio, forse non desidererei così ardentemente

come ora di cercarlo e forse mai avrei scoperto le nuove

vie sulle quali Lui camminava per venirmi incontro.

Se tu allora non mi avessi tolto tanto, Dio oggi non

m’avrebbe potuto dare così abbondantemente.

Signore, hai cominciato a farmi capire, proprio attraverso

padre Noir, che non tutto il male viene per nuocere,

anzi che per Te tutto, proprio tutto, anche ciò che per noi

è male, può essere tra sformato in bene e in grazia.

Grazie, Signore, per aver messo padre Noir sul la strada

della mia vita, e per avermi fatto uscire da quella strada

solo quando ciò è stato considerato giusto dalla tua misteriosa

volontà. Erano circa due anni che mi trovavo a

Gourly quando padre Sonne, il rettore della parrocchia,

venne trasferito a Gremelly.

Egli lasciava con dispiacere la parrocchia, ma anche

noi eravamo addolorati per questo distacco.

Pur con tutti i suoi limiti e difetti, padre Sonne per me

era stato un riferimento, una guida, un aiuto amico in quel

periodo in cui io, giovane prete an cora inesperto della vita

pastorale, iniziavo il mio servizio di sacerdote.

Vederlo ora andar via mi faceva sentire quasi co me un

po’ orfano. Il suo successore era padre Noir, un alto prela -

to con i capelli bianchi, pur non essendo molto anziano,

con uno sguardo che mi pareva un po’ sfuggevole e che mi

aveva dato subito l’impressione di essere come alla continua

ricerca di qualcosa.

Una domenica mattina si era celebrato il suo solenne

ingresso in parrocchia, iniziato con l’arrivo di una schiera

di cavalli bianchi e di alcune carrozze in grande stile, che

si addicevano bene a quel degno rappresentante del

Signore Risorto che si accingeva a prendere in mano le

redini della vita di fede in quella nuova comunità.

Mentre tutti eravamo ancora in attesa di inizia re il corteo

che dalla vecchia piazza avrebbe accompagnato il

nostro nuovo pastore alla sua se de, quando da poco padre

Noir, sceso dalla car rozza si era messo in attesa, in piedi,

accanto al piccolo sindaco che in quell’occasione pareva

ancora più basso, ecco che un cavallo bianco poco di stante

da loro, dopo aver agitato la coda quasi come un avviso,

impiastrò la strada con i suoi bi sogni.

Fu come il “via” dato al corteo della gente, che muovendosi

piano piano ed evitando ciò che il bianco cavallo

aveva da poco lasciato per terra, si avviava verso la chiesa

parrocchiale per dare il benvenuto, con la messa solenne,

al novello pastore del gregge. Dopo solo pochi mesi mi

resi conto di essere veramente rimasto orfano: questo

nuovo pastore, pur con tutta la sua buona volontà, la sua

convinzione e il suo impegno, pur con tutta la mia dispo -

nibilità a considerarlo come segno e strumento di Dio, mi

lasciava alquanto perplesso per quel suo modo di essere e

di fare, che provocava in me continui smarrimenti e negazioni

al mio essere sacerdote.

Percepivo un pò ‘ alla volta che Dio mi stava pre -

parando delle prove, che il paradiso adesso era finito da

godere, bisognava ora iniziare a guadagnarlo, sopportando

e offrendo al Signore le prove che Lui per me avrebbe permesse

tramite il suo servo padre Noir.

Disponendomi in questo atteggiamento tutto al l’inizio

mi sembrava possibile da vivere; ma dopo un po’ di tempo

i tanti buoni propositi, la for za di volontà e di sopportazione

e le belle intenzioni dovettero soccombere di fronte alla

persona travolgente di padre Noir.

Mi stupivano le sue sicurezze e l’intransigenza riguardo

a quelle che egli presentava come le realtà di Dio. Non

me la sentivo proprio di avere quelle certezze che egli pretendeva

da me e che – lui lo ri marcava di fronte alla gente

– erano l’unica garanzia necessaria per la salvezza della

anima. Io tremavo di fronte alla decisione di doverle as -

sumere e proclamare con quella sua estrema sicurezza;

non avrei mai potuto farlo, non ci sarei mai riuscito, nemmeno

volendo; e poi, il Signore davvero mi stava chiedendo

questi atteggiamenti?

Fu l’inizio della mia crisi.

Ora stare in chiesa, là nel confessionale, mentre dal

pulpito tuonavano ripetutamente improperi, giudizi, rimproveri

e visioni negative della vita, lamenti e continui

richiami, diventava per me un tormento continuo e sempre

più sofferto.

Quella non era già più la mia chiesa che mi faceva sentire

a mio agio, che mi offriva serenità; i miei occhi poi

faticavano a distinguere il sorriso del Crocifisso, trovandosi

di fronte solo questa realtà impeccabilmente seria e

inderogabilmente severa.

Iniziavo a sperimentare il dovere della sopportazione

più da vicino e sempre più lontana la gioia della grazia.

Dov’erano finite la speranza, la luce, la gioia, la serenità,

la dolcezza?

Ma sì che ci dovevano essere, e non erano state un

sogno per me: le avevo da sempre sperimenta te prima,

anche quando le parole dei sacerdoti era no poche e povere,

anche quando le chiese erano un po’ buie; le cose anche

allora andavano male, ma si affrontavano ugualmente con

serenità. Ma sì, certo che aveva valore la messa celebrata

da padre Noir: come ogni altra eucarestia, era il dono di

Dio per noi; ma perché questa era così mal vissuta, sopportata

e non serena?

Perché adesso sperimentavo sempre in misura minore

tutte quelle realtà tanto belle ed affascinanti che mi ave -

vano finora accompagnato nella vita della fede? Parlando

con la gente intuii che anche secondo loro non era una

questione di prediche lunghe o brevi, di toni alti o dimessi

della voce, ma di ricevere o no la serenità e l’aiuto: la

messa deve aiutarci sempre ad incontrare Dio, non si deve

giungere al punto di averlo incontrato nonostante la messa

alla quale si ha partecipato.

Presi allora la decisione di stare distratto volutamente

durante la messa di padre Noir, pensando alle mie cose e

pregando Dio che facesse Lui il resto con la sua grazia.

Solo così pensavo di poter riuscire a trattenere ancora

un po’ di quella serenità che sempre più mi stava sfuggendo
da quando, chiuso nel mio confessionale, ero presente

durante le messe celebrate da padre Noir.

E il mio disagio, naturalmente, continuava ad acuirsi.

Parlare di questi miei problemi con lui in per sona, con

padre Noir? Era impossibile, me n’ero ormai convinto.

Mi ero accorto infatti che lui parlava a me, di fronte a

me, di me, per me, ma mai si era ritrova to a parlare con

me, a dialogare. All’inizio, quando lui da poco era giunto

in parrocchia, mi recavo spesso e volentieri anche in casa

sua, ma a poco a poco compresi di essere a disagio, di

costituire per lui quasi un impiccio, di non potergli parlare

come volevo; che chissà perché ma non ci riuscivo proprio,

che era inutile chiedere e tentare un dialogo.

Invidiavo allora il suo gatto, perché notavo che ad esso

lui si rivolgeva spontaneamente, come fosse stato una persona

amica: “Fufino, per fortuna ci sei tu qui con me...

cosa mi dici? ma lo sai che...”. Perché mai, maledetto

gatto, io non riesco ad entrare in dialogo con lui, con il tuo

padrone? Boh!

Ogni discorso che tentavo di costruire cadeva nel vuoto

o nella tazzina del caffè; e allora osservavo con invidia

quel gatto rosso al quale avrei vo luto dare come sfogo una

gran pedata... squillò il telefono e padre Noir si recò a

rispondere di là, nel suo studio, ed io realizzai il mio

amato desiderio. Il gatto, ben colpito, con un forte improvviso

miagolìo si dileguò in giardino dalla porta socchiusa

della terrazza.

E le cose peggioravano col trascorrere del tempo.

Si era creata ormai una sempre più profonda frattura

nel nostro modo di vivere e di svolgere l’identico sacerdozio

che il Cristo ci aveva affidato come un servizio in

quella parrocchia.

Come due calamite girate una da una parte e l’al tra

dalla parte opposta e che si cerca di fare avvicinare, ci

respingevamo fortemente l’un dall’altro, allontanandoci

già col nostro modo di vivere, poi nel fare, nel parlare, nel

testimoniare, nel programmare.

Le iniziative che partivano dall’uno non trova vano da

parte dell’altro né sostegno né aiuto, ma solo silenzio,

indifferenza e a volte anche contrarietà.

Fu così che anche ogni mia iniziativa un po’ per volta

annegò mandandomi più che mai in crisi.

Con mia grande gioia si era riusciti a radunare un folto

gruppo di giovani collaboratori attorno alla proposta di

costituire un giornalino, espressione della realtà dell’oratorio,

che avevamo intitolato “Hello!” quale augurio di

gioia e di vita. Pensavamo che tale iniziativa inaspettata

sarebbe stata accolta da padre Noir come una gradita sorpresa.

Fu così una forte batosta sentirci dire da lui che

l’idea non poteva assolutamente proseguire, per ché già

esisteva un bollettino della parrocchia, e solo attraverso

quello si doveva passare perché quel tipo di nostra iniziativa

potesse avere un buon esito.

E così, nonostante un po’ di malcontento e di ri -

mostranze da parte dei giovani collaboratori, si giunse alla

decisione di rimangiarsi l’idea - sorpresa e ogni altra iniziativa

in questo senso, per non compromettere ulteriormente

il già incerto rap porto che avevamo con padre Noir.

Proprio in quella occasione infatti avevamo an che tentato

di far presente a lui alcune realtà che, a nostro avviso,

non procedevano bene nella parrocchia, e avevamo anche

dato alcuni suggerimenti..., ma di fronte all’improvvisa

reazione di padre Noir che prima piangendo, poi battendo

fortemente i pugni sul tavolo, poi scuotendo mesta mente

il capo, si era rifugiato nel suo studio sbattendo la porta,

eravamo rientrati tutti alle nostre case, senza fare tanti

commenti sull’accaduto, con il chiaro proposito di non

fare più del male a padre Noir, convincendoci che la colpa

era nostra e quindi non avremmo più dovuto fargli quelle

osservazioni che lo avrebbero fatto stare male e piangere,

compromettendo la sua serenità... quella serenità che io

vedevo ormai sempre più lontana da me!

Dopo il fallimento di questa iniziativa, personalmente,

ritenni cosa positiva e fattibile, non in contrasto con padre

Noir, il poter seguire più da vicino il gruppo dei ragazzi

che come catechista io stesso avrei animato e con il quale

svolgere iniziative diverse, di gioco, di recita, di tipo spirituale,

ricreativo.

Ma la cosa non durò a lungo: padre Noir mi richiamò

osservando che non si era stabilita quell’iniziativa nel contesto

dei programmi pastorali del la comunità. Inoltre, quel

gruppo veniva troppo seguito, e la predilezione non si confaceva

alla realtà evangelica di essere tutti uguali di fronte

a Dio. Infine, c’era anche il fatto che il dialogo per -

sonale che cercavo di fare con i ragazzi avrebbe potuto

essere positivo, ma con le ragazze avrebbe potuto creare

invece ambiguità e malintesi, cose queste che si sarebbero

certo evitate abolendo tutto.

E fu un’altra dolorosa botta.

Mentre cercavo di riprendermi ed orientarmi verso

nuove realtà che avrebbero potuto dare significato non

solo al mio essere, ma anche al mio fare il prete, padre

Noir mi sottolineò che non era affatto educativo che ai

nostri chierichetti venissero elargite da parte mia mance in

denaro; che se avessi avuto dei problemi per offrire una

merenda dopo il loro servizio alle celebrazioni, ci avrebbe

pensato lui stesso, portandoli a casa sua.

Pensò a fare questo e, dopo breve tempo, an che ad affidare

la direzione del gruppo dei chierichetti a un chierico

della parrocchia. Di fronte a queste e alle altre delusioni,

mi accorgevo di perdere a poco a poco il mio spirito di iniziativa,

la mia serenità, la mia fantasia.

Il mandare giù mi creava, in quel periodo, uno spirito

di passività apparente ed esteriore, mentre dentro di me si

agitavano sempre più aspirazioni, tensioni, idee, desideri

che continuamente soffocati mi facevano stare male anche

fisicamente. Me ne accorsi quella mattina, sputando bocca -

te di sangue nel lavandino; dopo la visita d’urgenza, la diagnosi:

gastrite acuta e ulcera perforata al duodeno, da curarsi

soprattutto con l’eliminazione della causa: i disagi psicologici

dai quali il pa ziente si trovava sempre più oppresso.

Già, ma come fare per eliminare questi?

Sapere di avere un buco nel duodeno mi aveva reso un

po’ sereno, perché questa ulcera col suo dolore mi richiamava

che la vita era breve e con es sa le gioie e anche i

disagi che uno poteva speri mentare.

Proprio la precarietà della mia situazione mi rendeva

un po’ più sereno... grazie, ulcera!

Pegghie e gli amici

Chissà cosa ne pensi ora, carissima Pegghie, ri guardo a

quella promessa non più mantenuta che ti avevo fatta una

di quelle sere della prima esta te, quando ti dissi, così sui

due piedi, che prima di andarmene da Gourly avrei voluto

fare l’amore con te!

Vuoi sapere cosa adesso ne penso io?

Guardando dalla finestra e trovandomi di fronte solo

pioggia e nebbia in questo pomeriggio così triste, lasciando

che la mia fantasia sconfini guidata solo dal cuore e dai

sensi, ho certo soltanto nostalgia e rimpianto per non aver

adempiuto a quella promessa e sarei tentato di venire subito

da te per farlo.

Ma il mio esserti ora veramente e profondamente

amico mi suggerisce che così facendo tradirei fi no in

fondo la nostra amicizia, verrei meno alla tua fiducia, ti

ridurrei ad un semplice oggetto del mio desiderio di piacere,

proponendoti un amore falso.

Proprio perché ora ti sono così profondamente amico,

non farò mai ciò che le parole un giorno ti hanno promesso

dietro il suggerimento di un cuore confuso.

La ragione ora ricorda al mio cuore che tu sei per me

un’amica troppo importante e non puoi esse re ridotta

all’oggetto di sfogo delle mie brame ed istinti, ad un’occasione

che mi serve solo in quel momento e poi può essere

gettata via comodamente.

So che basterebbe un mio semplice invito e tu, se io ora

lo volessi, faresti di tutto per me, anche questo, annullandoti

per rendermi felice; ma non è umano e neppure ragionevole.

In quel momento ti userei e non ti rispetterei; ti

piacerei, ma non ti sentiresti amata.

Sono contento quindi di non aver mantenuta la promessa!

Solo così infatti ti posso essere profondamente amico

ancora oggi. Il vostro gruppo, la simpatica ed affascinante

Company, fu una delle ultime realtà che mi rimanevano a

Gourly, dopo che padre Noir aveva or mai azzerata ogni

mia iniziativa e abbattuto ogni altro possibile rapporto di

amicizia. E come in una pentola a pressione chiusa erme -

ticamente il vapore, sotto la spinta del fuoco, di venta

all’interno sempre più pressione forte, così in me ogni

realtà che veniva soppressa in quel periodo si trasformava,

sotto la spinta di ciò che io ero, in un sempre più intenso

e forte desiderio di amicizie e di nuovi rapporti.

E la vostra presenza, la tua e degli altri amici, costituiva

per me non solo la valvola di sfogo, ma an che la possibilità

di continuare a vivere, salvando me stesso. Con tutte

le mie forze ho cercato allora di mantenermi unito a voi.

Dalla iniziale semplice simpatia si era giunti a stare

sempre più insieme, costruendo tra noi quel clima di confidenza

che mai altrove avevo sperimentato. Era un reciproco

confidarsi e aiutarsi consigliandosi, un vivere serenamente

insieme non so lo attendendosi, ma anche cercandosi

volentieri. E così, le piacevoli passeggiate in bicicletta

con tutto il gruppo e anche noi due soli, io e te, lungo le

vie del paese e lungo i viali; il ritrovarci poi a raccontare

della nostra vita; i pomeriggi sotto il sole, a ridere e sognare;

le uscite tutti insieme la sera, per la pizza o per le

messe del mese di maggio, che erano le occasioni più

romantiche per in contrarci; quelle sere al bar dell’oratorio

a scherzare e dialogare senza mai stancarci, o fuori, nel

cortile, a volte sotto il ciclo denso di stelle e al chiarore

della luna, a volte riparati sotto il portico per non bagnarsi

dalla pioggia, che con le sue gocce faceva da sottofondo

ai nostri discorsi, da intermezzo ai nostri sospiri, da

accompagnamento alle nostre lacrime nei momenti del

pianto, dello sfogo e dell’intensa gioia. E la sera tardi

lasciarsi con dispiacere nel tiepido buio delle strade deserte

dicendosi arrivederci a presto, al più presto possibile.

La Company!

Tu, Pegghie, il piccolo grande amore, sempre vivace e

frizzante, che incoraggiavi me e nello stesso tempo desideravi

di essere da me incoraggiata; felice quando ti sentivi

amica per gli altri e quando sentivi gli altri amici per

te, vivendo la loro vicinanza con le parole, con la semplice

presenza, con il saluto, con un sorriso o una telefonata

ina spettata. E Stouden, che avevi dapprima in semplice

rap porto di simpatia e poi era diventato il tuo gran de

amore che ti tormentava, perché lo vedevi spesso anteporre

a te i doveri dello studio e della fa miglia, e ciò ti faceva

impazzire e piangere; che notavi allontanarsi da te per

un momento e poi ritornare ancora da te, mentre tu avresti

preteso più decisione e più chiarezza.

Per lui soffri ancora oggi enormemente, sperando, pregando

e pregando anche me perché preghi Dio che te lo

possa far riavvicinare presto, per ché lo convinca a ravvedersi,

a lasciare un po’ da parte i suoi interessi e quell’atteggiamento

di estrema serietà e notevole distacco che

mostra di ave re, e si decida a stare con te.

E l’amica Joie, sempre sorridente e sbarazzina, simpatica

anche soltanto per quel suo atteggiamento del cadere

dalle nuvole e del non capire mai le battute che facevamo;

con quegli occhietti vispi e brulicanti pareva come fuori

dal mondo, ma di fronte ai problemi degli altri si rendeva

d’un tratto seria e pensierosa, riuscendo sempre ad il -

luminare e consigliare chi parlava con lei.

Anche con lei amavo trascorrere quelle sere dialogando

e confidandomi sulle realtà della vita che, secondo lei,

apparivano tutte sempre belle e pie ne di speranza... non

vedeva mai nero, da nessuna parte. Ridain: lui aveva la

caratteristica del sorriso, e vicino a Joie parevano la coppia

più unita del mondo; felice lui di non stare più lontano

da lei di die ci centimetri, contenta lei perché sapeva che

lui desiderava soprattutto questo. Ridain, con la sua capacità

di evadere ed aggi rare ogni problema che gli veniva

posto, ogni do manda che gli veniva fatta, simpatico per le

sue battute sempre pronte, i sorrisi mai forzati, che manifestavano

un cuore semplice, un ragazzo disponibile e

senza altre pretese che la felicità di sé, ma prima ancora,

di lei: Joie. Più che la sua parola, in lui parlava il suo

sguardo che sempre lo faceva apparire innamorato perso,

col volto spesso incantato a guardare lei. Parlare con lui

quindi mi è sempre stato un po’ difficile; stare con lui e vi -

verci insieme era invece più facile, perché allora capivo

che il suo atteggiamento diventava il suo più bel modo di

dialogare. E quella...? come non ricordare quella rompi di

Senzie che, più battute faceva, più si rendeva, a sua insaputa,

così ridicola? Quante volte mi sono chiesto: ma quella

non si accorge di cosa e di come di ce le cose? Non si rende

conto di essere considerata come un po’ svampita?

Ma forse era proprio questa ingenuità che la rendeva così

simpatica e la manteneva inserita nella Company, ...altrimenti,

come la si sarebbe potuta sopportare? E pensare che

un giorno le avevo detto anche, a mo’ di battuta, che lei era

la mia gemella!

Con quei suoi discorsi sconclusionati ed incasinati al

massimo, sempre inconcludenti, misti a imprecazioni d’ogni

genere e ai giudizi sulle altre persone, voleva sempre arrivare

a quel chiodo fisso che era il suo “lui”, già, il suo Georgie.

Sempre sereno, con la sua dote naturale di una certa attrattiva

fisica, senza impegno né sforzo di fronte alla vita, egli si

considerava felice e fortunato in ogni momento... tranne

quando si senti va perseguitato da lei. Con la sua classica

calma si conquistava sempre tutta la Company, ed era di -

ventato, nelle grandi occasioni, il mio braccio destro, il mio

fidato aiuto ed assistente, e ciò nonostante i vari richiami e

anche qualche sberla ricevuta da me. E Benvi poi, col suo

carattere taciturno e tranquillo, sempre benvoluto da tutti,

con quella bontà di cuore alta come lui; era il più ragionevole

e comprensivo della Company: capiva e valutava le si -

tuazioni al volo, anche se poi a causa della sua timidezza non

esprimeva molte opinioni a riguardo. E così potrei continuare

a parlare con te, carissima Pegghie, ancora di voi, di tutti

gli altri, del la esuberante e sorridente Breitte, colma di brio

e di vitalità, gentile ma anche un po’ nervosa, specie quando

veniva provocata; di Vrilie, dolce ed educata, con il viso del

sorriso; di quella rompi-scatole di Fiette, con la sua caratteristica

risata e che voleva a tutti i costi essere innamorata di

tuo fratello; e poi di Paul; e di Vienne e Jean, che an davano

sempre d’amore e d’accordo al punto da sembrare già marito

e moglie; e di Berte, quel simpatico, folle e un po’ spaccone,

ansioso di farsi no tare con ogni mezzo e in ogni

modo... E così potrei ancora continuare a ripercorrere con te

queste nostre amicizie... E... – mi dirai – ...e lei? Perché non

parli di lei? Te ne sei forse dimenticato? di lei? !

Lascia perdere per il momento, Pegghie... vor rei adesso,

ancora per un po’, soffermarmi a par lare con te, di

quello che è stato... Ti dico anzitutto che non rinnego nulla

di quel lo che c’è stato fra noi, proprio perché io ritengo sia

stato la fonte di quella nostra serena e profonda amicizia

che continua ancora oggi.

Non lo considero quindi un’esperienza negativa, tutt’altro:

molto positiva ed enormemente bella...

Tutto era iniziato una di quelle giornate di maggio...

Quella sera non mi andava proprio giù l’idea di seguire

padre Noir in una delle sue solite messe serali della

Madonna. Allora vi avevo proposto di trascorrere la sera -

ta in un modo un po’ più sereno, andandocene a fare un

giretto in macchina: con Paul, quel matto di Paul sempre

alle prese con le questioni della vita umana, con i problemi

della fede, ma anche sempre disponibile e desideroso

di fare qualcosa per gli altri, e per questo lo ammiravo

tanto; lui, guidando la sua auto, poi io, Ridain e Joie,e tu,

Pegghie. Eravamo partiti senza una meta precisa, la -

sciandoci condurre da Paul che affermava di conoscere un

bellissimo posticino vicino al lago do ve fermarsi per

potersi gustare un buon gelato.

E noi, come al solito, dapprima lo avevamo preso un

po’ in giro, poi però ci eravamo affidati a lui, come con la

convinzione di far contento un bambino, e perché oltretutto

la macchina era lui che la conduceva, e se ci fossimo

ancora per un po’ opposti alla sua scelta, lui, come qualcuno

di noi ave va già sperimentato in altre occasioni, sarebbe

sta to capace di arrabbiarsi e di riportarci subito in -

dietro. Ed eravamo transitati sì presso un grazioso piccolo

bar posto lungo la strada che costeggiava il lago, ma Paul

non si fermò lì... guidò invece l’auto fuori dalla strada,

facendola scendere piano sulla riva, avvicinandosi così,

con un certo nostro stupore e poi anche timore, allo specchio

scuro del l’acqua che rifletteva dolcemente, in quella

sera tranquilla e tiepida, le piccole luci delle case che si

trovavano al di là, sull’altra sponda.

Paul scese poi dall’auto e prendendo dal bagagliaio una

coperta, la distese sulla spiaggia.

E ci sedemmo, tutti quanti vicini, ad ammirare quello

stupendo paesaggio notturno.

Tra un discorso e l’altro, tra una battuta e l’altra, nell’intervallo

di silenzio quasi a turno ci divertivamo a gettare

un sassolino nel lago, osservando le piccole onde concentriche

riflettere nel l’acqua le luci tremolanti...

Così trascorse un bel po’ di tempo, poi ci sdraiammo

sulla coperta, vicini,... e io a te,... e ci fu un prolungato

silenzio, disturbato solo dal ronzio di alcune auto che ogni

tanto percorrevano la strada, là sopra, e da qualche grillo

che qua e là, ora un po’ uno ora un po’ l’altro, faceva il suo

“cri-cri”. Con gli occhi fissi a quel ciclo stellato, ora io

ave vo in mano la tua mano. Dolcemente, le nostre dita si

intrecciavano, passavano attorno, sopra e accanto una

all’altra, come in un ballo, lentamente, delicatamente;

quindi le nostre mani si stringe vano forte, si lasciavano

quasi per un attimo e subito riprendevano, come in un

gioco vincente, le mosse di prima.

D’improvviso poi io lasciai la tua mano e mi mi si seduto;

rimasi così per un momento, fissando ti. Mi alzai e mi

allontanai qualche passo, come deciso a far finire tutto

ciò... allora, anche tu ti eri alzata.

Gli altri sembrava dormissero; sia io che tu li avevamo

osservati per un istante, come per accertarci che veramente

fosse così; poi, insieme, pia no, cercando di non far

rumore sui sassi, ci eravamo avvicinati all’auto di Paul,

che si trovava poco distante; eravamo entrati dietro, ci eravamo

seduti l’uno di fronte all’altra fissandoci per un po’

negli occhi... eravamo imbarazzati ed emoziona ti...

Io cercai allora di rompere quell’imbarazzante silenzio

con una battuta, ma, lì al momento, non me ne venne in

mente altra che quella che ti dice vo ogni tanto per scherzo:

“Facciamo l’amore?”. Il mio cuore aveva allora iniziato

a battere pazzescamente; sentivo che la mente era ormai

agli estremi tentativi di riportarlo alla tranquillità... le

nostre mani nel frattempo si erano di nuovo avvicinate, e

con esse ora anche le nostre labbra, che sfiorandosi lentamente,

iniziarono quel bellissimo e profondissimo bacio.

Dopo qualche giorno, un tuo scritto, con il qua le mi

dichiaravi che solo io per te costituivo il sen so della vita,

e che ora ti saresti voluta suicidare perché temevi che ti

stessi dimenticando per qual che altra...

E ci eravamo allora incontrati là, seduti su quel muretto

del cortile dell’oratorio, quella indimenticabile sera,

quando, nel buio attenuato dalle fio che luci del bar giù in

fondo, e nel silenzio rotto da quel suono straziante di chi,

nell’aula di sopra, imparava ad usare lo strumento della

banda, ci eravamo confessati a vicenda: io ti avevo confidato

che mi ero confessato; e ora confessavo te; e per pe -

nitenza l’impegno di richiamarci a vicenda a quel la che

era la nostra realtà, in modo che nessuno dei due traesse di

nuovo l’altro in tentazione.

Avevamo poi continuato a dialogare ancora per un bel

po’, mentre, da sopra, quei suoni sgraziati che giungevano

a noi parevano ora dolci melodie e lieti auguri per una

nostra profonda e sempre più serena amicizia.

Nedenthal

La Scuola Media di Gourly: in essa ho sempre vissuto

momenti belli, non solo di insegnamento, ma anche di

apprendimento... Essa era diventata, lo dico con un certo

rammarico perché teoricamente non avrebbe dovuto ave re

questa importanza, la vera parrocchia, l’ambiente in cui

mi sentivo valorizzato come prete, co me insegnante di

religione e, ancor prima, come persona.

L’amicizia con il Preside, con il quale il mio rap porto

era proprio come quello di un figlio verso il padre; i suoi

consigli sempre più utili, dosati, posati, ma nello stesso

tempo decisi. Quell’amico preside che aveva sempre

come primo riferimento, diceva lui, la ragione, che dove -

va essere la guida e la luce in ogni occasione; ciò sembrava

porre in secondo piano la fede, ma in effetti, lo riconoscevo

a poco a poco, dava ad essa fondamento e ragionevolezza,

rivelando perciò in lui una fede profondissima.

L’amico preside che, dietro a quello sguardo ap -

parentemente serio e formale, di fronte a me non riusciva

a trattenere il tremolio delle labbra che nascondevano il

sorriso. Qualche volta lo avevo an che sorpreso con gli

occhi lucidi, quando, di fronte a certi miei atteggiamenti

inaspettati nei suoi confronti, si era commosso.

Era sempre per me un aiuto e un modello; per questo

non mi dispiaceva giungere a scuola an che molto in anticipo,

per poterlo incontrare e parlare del più e del meno.

E quando lui non c’era la sciavo il mio saluto, scritto

stando seduto alla sua scrivania... un preside fortissimo!

Con i miei colleghi docenti, con i bidelli, in segreteria

mi sentivo poi veramente a mio agio, per ché comprendevo

che tutti loro, pur con metodi, mentalità, compiti e

obiettivi diversi, parlavano lo stesso mio linguaggio di

ricerca di umanità.

E così, tra battute e scambi di saluti e di impressioni

quando ci si incontrava, anche con loro la mia amicizia

non era mai venuta meno, anzi era di ventata sempre più

profonda.

Ricordo soprattutto l’amicizia con il collega Friedrich,

con il quale, all’inizio, si parlava, si scherzava, si raccontavano

barzellette, ci si incontrava per consultarsi circa il

metodo d’insegna mento e la compilazione dei registri.

Poi tu avevi cominciato a raccontarmi dei tuoi problemi,

delle tue ansie, delle tue attese, delle realtà più intime

della tua vita, proprio quelle più profonde e che io mai mi

sarei aspettato di sentir mi dire da te, anche se noi ci consideravamo

amici... è così che anch’io mi ero sentito in

grado di raccontarti tutto di me, di ciò che mi era capitato

proprio attraverso l’occasione della scuola...

Non mi sembrava vero: tre giornate attese con tanta trepidazione

da parte dei ragazzi ma anche da parte mia...

Per questi tre giorni mi ero proposto di rilassar mi per

riuscire a recuperare anche solo un po’ di quella serenità

che sentivo essersi allontanata da me e che avevo la possibilità

di riavvicinare ora, lontano da padre Noir per tre

giorni e due notti... sarei veramente stato di nuovo me

stesso...

Una gita che già quindi prima di partire si pro spettava

favolosa, eccezionale.

La meta: Nedenthal, con tappa a Chiaix e una visita ai

castelli medievali della zona.

L’orario di partenza, ore 5.30, aveva suscitato in classe

non poche lamentele; ma ora, al momento della partenza,

già tutti si trovavano presenti in piazza: i ragazzi, il preside,

la professoressa di francese, un’altra prof, alcuni genitori

dei ragazzi. Saluti; partenza e, dopo due ore, si era già

in piena autostrada.

I primi raggi del sole del mattino infastidirono chi sul

pullman fino ad allora era riuscito a continuare a dormire;

ma l’atmosfera rimaneva ancora quieta; si sentiva soltanto

il ronzio del motore e, ogni tanto, qualche sbadiglio.

Ne avevo allora approfittato per recitare le preghiere

del mattino, e, con calma, la mia parte del breviario.

Nella tarda mattinata arrivammo al castello di Nifes, lo

visitammo con l’aiuto di una guida loca le, poi il pranzo

presso un localino caratteristico e le prime foto... e di

nuovo sul pullman, diretti ver so il confine, per giungere,

attraverso il traforo del monte Blöm, in Nedenthal.

Ora l’atmosfera era vivace e frizzante: scambi di battute,

di scherzi, di impressioni circa il paesaggio che si

incontrava; qualche canto lasciato a metà, musica da uno

stereo portatile,... le solite realtà di ogni gita.

In questa atmosfera, parlando, ridendo, scherzando, i

nostri occhi si incontravano sempre più volentieri, tu

accovacciata sul sedile davanti al mio, girata verso di me,

col volto appoggiato al lo schienale.

Ci fissavamo negli occhi come facendo la gara di chi

per ultimo li distoglieva dall’altro; poi sempre come per

gioco, ora io, ora tu, sorridendoci dolcemente, sfioravamo

lentamente la lingua sul le nostre labbra, ripetendo inconsciamente

quel gesto che a scuola facevate spesso tra voi

sorridendo e che anch’io avevo imparato, senza mai aver

pensato al suo significato. Tu ti eri poi venuta a sedere

vicina a me e, ma no nella mano, sguardo dopo sguardo,

emozione dopo emozione, avevamo iniziato così questa

nostra avventura, senza quasi rendercene conto.

E mentre ragionavo ripetendo a me stesso che non era

un atteggiamento giusto quello che stavo vivendo in quegli

attimi con te, nello stesso tempo non ritenevo nemmeno

giusto il tirarmi indietro, il rinunciare a ciò.

Complice poi di queste situazioni fu il lungo tunnel

sotto il monte Blöm, che creando al suo inter no l’atmosfera

come dentro un film, ci faceva agi re senza più pensare

a nient’altro che a uno e al l’altra, come se il mondo attorno

non ci fosse più. Nedenthal: più che dalle realtà nuove

che si potevano trovare in quella terra straniera, restavamo

ammirati di noi, di cosa ci stava succedendo. E questa gioiosa

meraviglia ci spingeva a cercarci ancora, a camminare

sempre più vicini, a parlar ci, a starcene seduti lungo

tutto il viaggio mano nella mano, occhi negli occhi,

abbracciandoci con il sorriso e l’emozione sempre più

intensa, baciandoci con quelle prime parole affettuose che

ci sussurravamo sottovoce.

Non ritenevo assolutamente ciò che ci stava suc -

cedendo una realtà importante tra noi, come un amore...

pensavo solo che ciò che stava accadendo era la conseguenza

logica di quel mio proposi to, fatto alla partenza, di

vivere quei tre giorni se reno e spensierato.

Al ritorno, ripetevo tra me e me, tutto quanto tornerà

alla normalità di prima e anche quella stupidata che stavamo

vivendo sarebbe finita, ce la saremmo dimenticata

subito... intanto dovevo pensare a trascorrere felicemente

quei tre, ahimè, ora due giorni!

La serata in albergo prevedeva un pigiama-party, con

ritrovo inaugurale nella stanza dei ragazzi.

Non tutti c’erano, ma tu sì, c’eri; io, un po’ con -

siderando il fatto di essere un prete, un po’ per ver gogna,

decisi di non mettermi in pigiama.

E quella sera, tra una foto e l’altra, tra uno scherzo e un

tentativo da parte vostra di farmi fu mare bene ad ogni

costo, tra una canzone e una corsa insieme sulla terrazza,

più tardi avevamo ballato tutti... e io con te quel bellissimo

brano, Reality, che sul pullman durante il viaggio

sentivamo e risentivamo a turno, sempre più volentieri,

dal registratore con le cuffie che Kelie ci aveva prestato.

Ballare ora quel lento con te mi faceva essere un altro,

più vivo che mai: sentivo il tuo cuore, emozionato, battere

vicino al mio; abbracciandoci così delicatamente, il tuo

volto mi sfiorava come accarezzandomi, e regalandomi

quell’emozione intensa che mai prima di allora avevo provata;

lenta mente, questa nuova realtà mi affascinava sem -

pre di più.

Reality: quattro minuti e diciotto secondi di paradiso.

Quella gita ci faceva così incontrare in modo sorprendente

ed inaspettato, e la risposta a questo misterioso

destino che dirigeva in quel modo la nostra vita, lo sentivamo

entrambi, non poteva che essere affermativa.

E ciò nonostante il tuo pensare: ma è un prete..., e

nonostante anche il mio ripetermi continuamente: sono un

prete... lei è solo una ragazzina; non ci potrà mai essere tra

noi un autentico rapporto di amore... è tutta un’infatuazione

del momento, una cotta provvisoria per tutti e due,...

questo comportamento è assurdo, potrei essere suo padre

per età... deve finire subito questa storia, il più presto possibile!

Al ritorno tutto sembrava destinato a diventa re presto

come prima: ad attenderci c’era la vita normale e serena di

sempre a scuola, le solite realtà di ogni giorno, per me poi

la vita tormentata e sofferta con padre Noir... ora però

c’era anche il problema di mettere in chiaro le cose con te

dopo questa nostra esperienza.

Mi proposi di farlo al più presto...

Ti incontrai quella sera di una domenica della primavera,

quando il sole, ormai pallido, disegna va a malapena le

nostre ombre sul cortile dell’oratorio. La poca gente che

ogni tanto andava e veniva non ci recava disturbo e sembrava

non curar si di noi...

“Volevo parlarti di quello che è successo tra noi in questi

giorni”, iniziai, mentre tu avevi sorriso dolcemente,

come per invogliarmi a continuare senza preoccupazioni,

per mettermi a mio agio.

“Volevo dirti – continuai – che non è giusto quello che

abbiamo fatto, né per me, né per te”, e a questo punto i

tuoi occhi cominciarono a fissar mi con una evidente

apprensione... “sono stato uno stupido, io, che sono un

prete, a comportarmi così con te... scusami... tu non ne hai

alcuna colpa, sei una ragazzina. È colpa mia, ora dimen -

tica tutto e restiamo amici come prima, come eravamo

prima di questa gita. Va bene?”.

Ora i tuoi occhi apparivano lucidi per le lacrime che a

stento riuscivi a trattenere, e io guardandoti mi convinsi di

averti fatto un discorso proprio da prete, una predica, un

discorso di formalità, distaccato, che non sarebbe proprio

stato il caso di fare in quel momento e in quel modo...

Cercai di rimediare e di correggermi iniziando a parlarti

in un modo un po’ più dolce e persuasivo, scendendo un

po’ più al tuo livello: “E dai, non è poi la fine del mondo;

abbiamo fatto questa esperienza – e qui mi bloccai come

per deglutire, ma era l’emozione–che è stata bella, ma che

non possiamo certo continuare. Ci pensi? Io ti rovinerei, tu

rovineresti me, e questo non è giusto. Dai, accettiamo la

realtà così com’è e restiamo buoni ami ci, eh?...”.

Con quelle parole e con quel tono di voce che avevo

usato per persuaderti, mi sembrava di aver parlato come

una nonna quando cerca di fare capire al suo nipotino la

marachella che ha combinato, per tenerlo buono e convincerlo

a dargli ascolto perché lei ha ragione.

Tu mi avevi guardato per un attimo, poi, asciugandoti

le lacrime ormai scese, chinando il volto per terra, avevi

risposto con un filo di voce: “sì,... sì...”.

E ci eravamo salutati con un semplice ciao, co me se già

non ci conoscessimo più come prima.

E ti avevo seguita con lo sguardo fin dove ave vo potuto,

poi, facendo un profondo sospiro di dispiacere, di

sfogo e insieme di incoraggiamento a me stesso, avevo

pensato: eh, ...finalmente tutto è sistemato; certo, è stata

bellissima questa esperienza; ma adesso, tutto deve tornare

come prima!

E mi ero diretto in chiesa per la messa vespertina delle

diciotto, per confessare e aiutare padre Noir nella distribuzione

delle comunioni. Nei giorni seguenti avevamo l’occasione

di in contrarci spesso, sia a scuola, sia per rivedere

le fo to della gita, sia per trovarci a raccontarla al grup -

po della Company. E intanto mi rendevo conto che quella

realtà misteriosa ma tanto affascinante che esisteva tra noi

non diminuiva, secondo ciò che avevo stabilito io, anzi

cresceva sempre più sia per me che per te.

Sia in me che in te infatti notavo che c’era quel forte

desiderio di incontrarci, che noi tenevamo a freno, un po’

perché avevamo stabilito così, un po’ per vergogna di

fronte agli altri, un po’ per la paura che i nostri sentimenti

venissero scoperti, ...ma era una forza troppo intensa per

poterla control lare, e ora essa stava superando ogni nostra

decisione fatta, ogni tipo di vergogna, ogni barriera di

paura. Continuavo a meravigliarmi di me stesso, di co sa

mi stava succedendo; e nello stesso tempo di te, di come

potevi essere innamorata (la sola parola mi suonava stonata)

di me. Poi ripetevo a me stesso: ma non è vero!

È un sogno, vedrai che passerà; ma quando mi ritrova -

vo davanti i tuoi occhi dicevo: boh, chissà poi! e dubitavo

che fosse realtà. Si scombussolavano così, a poco a poco,

tutti i miei modi di ragionare, di vedere le cose, di vive re.

Sentivo in me che questa nostra realtà da una parte non

era da ammettere, ma nello stesso tempo nemmeno era da

rifiutare, perché essa andava certo oltre, ma non certamente

contro ogni logica.

In questo chiedermi continuamente in che cosa consistesse

quella realtà che mi guidava in questi momenti, cercai

aiuto da te, chiedendoti di esprimermi, per scritto –

perché in questo modo sarebbe stato più facile per te –

cosa tu ne pensassi di questa assurda, folle, incomprensibile,

ma entusiasmante esperienza che ci ritrovavamo a

vive re insieme.

E tu allora mi avevi risposto così:

Ormai sono trascorsi quasi due mesi da quei tre stupendi

giorni, e da allora la mia vita si può dire che sia cambiata.

Prima pensavo a te come ad un amico ma, con il passare

del tempo, ho capito che i sentimenti che provavo verso

di te crescevano di giorno in giorno e, tutt’ora, mi rendo

conto che diventano sempre più intensi, sempre più profondi,

sempre più reali ed unici.

Fino a qualche giorno fa credevo che tu fossi la fonte

della mia più grande felicità, ma, nello stesso tempo, della

mia più totale disperazione.

Ora mi rendo conto che non c’è niente di male se provo

questo sentimento così intenso verso una persona che, tuttavia,

per la scelta che ha fatto, non dovrebbe essere amata

e non dovrebbe amare. Non penso che parlare sia sufficiente

per esprimere quello che provo nei tuoi confronti,

forse un’unica parola riesce a dare meglio l’idea, an che se

sono convinta che non c’è sostantivo che riesca ad esprimere

una cosa così grande; questa parola è amore.

Forse ti sembrerà un vocabolo un po’ troppo pe sante,

troppo grosso, ma credo che sia veramente amore quello

che provo quando ti penso, quando ti parlo, quando ti

guardo, quando siamo mano nella mano, quando, raramente,

ci abbracciamo. Probabilmente però non sono

maturata abbastanza per capire se ciò che sento è veramente

amo re; chissà, magari si tratta di una fase di breve

durata, che comunque, per la sua intensità ed unicità,

penso che costituirà sempre una delle esperienze più preziose

della mia vita. Probabilmente molte volte ti darò

l’impressione quasi di fregarmene della nostra amicizia,

ma devi capire che è difficile e nemmeno corretto mo -

strare interesse per te in presenza di altre perso ne.

Anche quando ci troviamo da soli vorrei dirti molte

cose, che forse tu non immagini neppure, ma non riesco ad

esprimere ciò che provo, ed è an cora più arduo farlo con

un prete, nonostante ci si conosca piuttosto bene.

Da quando sei entrato a far parte della mia vita hai

lasciato una traccia indelebile, ma soprattutto hai segnato

il mio cuore, questo cuore che hai sconvolto ma che, nello

stesso tempo, hai reso colmo di gioia, colmo di amore.

E così, mi rendevo conto che ciò era anche per te molto

importante, più di quanto io credessi, e avevo letto e riletto

più volte la tua lettera, ogni volta ripetendo a me stesso:

non può essere vero, no, è soltanto un sogno...

Poi, a chiedermi tante cose, e a riflettere, anche con un

certo timore, per le future possibili conseguenze di questo

nostro rapporto, poi la ricerca di una soluzione... e il mio

sguardo che si aggirava nello studio, sempre più smarrito,

incrociò il Crocifisso... Tu, che sorridevi, anche in quel

momento... io no, non risposi al tuo sorriso, ma, preoccupato,

con gli occhi fissi su di Te, cominciavo a pensare a

tutte queste nuove imbarazzanti realtà che stavo ora vivendo,

a come affrontarle e risolverle al più presto.

Sounmont

Siamo già ad aprile inoltrato, le giornate ora si sono

allungate, la primavera è in piena esuberanza. .. ma oggi

stento proprio a crederlo: la sera presenta, invece di un

atteso tramonto romantico, un inaspettato grigio squallore

che come un velo in vernale si stende a poco a poco su ogni

realtà di questa vallata, che senza il sole è anche senza vi -

ta. Il fiume è tristemente scuro, con le acque rese sporche

dalla lunga giornata piovosa; grigia è an che la strada e su

di essa le auto che scorrono sembrano avere tutte lo stesso

colore sbiadito e appaiono così tutte uguali, mentre la

loro monotona corsa viene accompagnata non più dal ronzio

del loro motore, ma dagli spruzzi d’acqua solle vati

dalle molte pozzanghere incontrate.

I monti qui attorno si presentano rivestiti di un verde

che pare il colore di un tappeto mai pulito e che subito

richiama alla mente cose antiche e abbandonate.

Le case disperse qua e là sembrano ansiose di na -

scondersi sotto quella fredda coperta che è la nebbia che

vien su dalla valle pian piano. Quando tutto è coperto è già

buio, e la notte, che attendeva, è ormai qui presente.

Come per istinto guardo all’orario: le venti e trenta; è

presto ancora; sentirò un po’ di musica, poi cercherò di

dormire, sperando che non sia questa serata triste ad

accompagnarmi nel sonno, ma il sogno di quei vivaci

colori, di quel sole esuberante, di quei volti sorridenti, di

quegli attimi affascinanti, di quei prati fioriti, di quelle

indimenticabili esperienze di quando... Mi convincevo che

ogni giorno con te ora diventava una nuova meraviglia, una

realtà inaspettata che irrompendo nella mia vita mi dava una

immensa gioia. E ciò avveniva quando ci incontravamo,

tutto il gruppo della Company, a scuola, all’oratorio, per

caso in strada, ma soprattutto quando eravamo noi due soli,

vedendoci da lontano e contemplandoci senza farsi accorgere

l’uno dall’altra, passeggiando in bicicletta lungo le vie del

paese, fermandoci volentieri a parlare sul sagrato della chiesa

o, con la scusa di ammirare la vetrina, davanti a un negozio;

tenendoci abbracciati mentre riascoltavamo Reality;

sentendoci per telefono... ricordo quando dalla tua vacanza

al mare mi avevi chiamato: mezz’ora di quel dolce dialogo,

che avremmo ancora proseguito per chissà quanto, se al tuo

telefono non fossero improvvisamente arrivati mentre ti cercavano

per farti uno scherzo e allora avevi dovuto per forza

riattaccare. Questa vita da sogno continuava a rasserenarci

sempre più intensamente, sotto il sole dei caldi pomeriggi

dell’estate meravigliosa che ci accompagnava, in quelle

serate romantiche di luglio che ci rendevano sempre più

vicini con le occasioni che ci offrivano in modo sempre più

inaspettato. E poi il grande momento della vacanza trascor -

sa insieme a Sounmont, questa sorpresa inaspettata che ci

siamo trovati a vivere quasi per caso: in fatti fino agli ultimi

giorni prima della partenza avevi affermato che tu non saresti

potuta venire con noi.

E lì mi convinsi ancora di più di essere innamorato

pazzo di te: facevo di tutto per non perderti mai di vista, e

anche quando il gruppo si trovava lontano ti seguivo sempre

con lo sguardo, desideroso di starti vicino e sempre più

geloso quando qualcuno degli altri si avvicinava a te.

In me crescevano insieme, sempre più intensa mente,

amore e timore, gioia di averti e paura di perderti.

Mi sentivo irrimediabilmente immerso in quel vortice

che, anche se consideravo un pericolo, per ché mi portava

a perdere la testa per te, mi face va però dimenticare ogni

realtà negativa, rendendo il mondo e quindi anche me stesso

più sereni e più affascinanti.

Ti sentivo mia, ma nello stesso tempo soffrivo enormemente

per non poterti stare vicino come avrei desiderato:

la ragione, la vergogna, la paura e la presenza degli altri

riuscivano a trattener mi ancora un po’.

Per questo il mio sì e il mio no verso di te vive vano

spesso insieme, contemporaneamente, facendomi soffrire

terribilmente e iniziando a far soffrire anche te, che non

riuscivi allora a comprendere perché io un momento ero

tutto per te e ti stavo accanto serenamente e appena un

minuto dopo mostravo soltanto indifferenza nei tuoi con -

fronti, quasi come se lì tu non ci fossi stata.

Come quella sera... non riuscivo a guardarti... ti vedevo

ma non ti volevo guardare; inconscia mente forse miravo

con questo atteggiamento a farti ingelosire di me, cercavo

forse di farti credere che non me ne sarebbe importato più

niente di te, per poter così suscitare in te un più forte desi -

derio di amarmi. Ma in quei momenti dentro di me fremeva

quella forza misteriosa che mi sospinge va sempre più

intensamente verso di te.

E così io, là fuori da solo, mentre voi eravate in gruppo

a ridere e scherzare, stringevo i denti per trattenermi, per

non impazzire, impietrito come per ira e per non so che, se

era per disperazione o per esasperazione, alzando gli occhi

al ciclo dentro il mio cuore gridavo: Dio mio! e le lacrime

avrebbero voluto scendere, ma non riuscivo nemmeno a

piangere. E tu, che ti eri accorta subito che io non ero con

voi, intuendo che forse qualcosa non andava, mi eri venuta

a cercare e mi avevi scoperto là, appoggiato al muro.

Fissandomi preoccupata e anche un po’ spaventata, mi

ripetevi: “ma cos’hai?”. Non ero riuscito a darti alcuna

risposta, anzi mi ero girato dall’altra parte, contro la parete,

scuotendo il capo come uno che non ha più niente da

dire o che non vuole più parlare. Tu te ne eri allora tornata

con gli altri, ma la tua voce non la sentii più fino a quando,

a notte fon da, quando tutti gli altri ormai dormivano,

mi ero avvicinato a te ancora sveglia, e seduto per terra

accanto al tuo letto, ti avevo preso la mano; ti guardavo...

ogni tanto, qualche parola, una lieve carezza, un sospiro,

lo stringersi delle mani come una promessa per non

lasciarsi mai, e infine, prima di andare, un bacio sfuggevole

e quasi timoroso che era stato il segno della nostra, ora

ancor più pro fonda, ritrovata serenità. Ciò che stava accadendo

a Sounmont costituiva sempre più una occasione

per unirci, per vive re sempre più vicini e per dichiararci

sempre più amanti. Perfino quel giorno in cui ero convinto

che or mai sarebbe decisamente finito tutto...

Pegghie, tua amica del cuore, aveva mostrato il suo diario

personale alle altre amiche e a te sola aveva fatto poi

leggere quella poesia che io le ave vo scritta alcuni giorni

dopo il fatto del lago. E ti aveva anche raccontato tutto, di

ciò che era successo tra me e lei, confessandoti che ella era

an cora molto innamorata di me, anche se non c’era stato

più nulla tra noi... e in quel momento ti sei sentita profondamente

tradita, usata, mai amata, giocata da me, mentre

da parte tua avevi sempre ritenuto di essere l’unica per me.

Amareggiata ed allo stesso tempo adirata, avevi deciso

allora di far finire tutto venendo da me e gettandomi in

faccia quella parola che mai mi sa rei attesa da te:

“Porco!... porco!” e te n’eri fuggita via. Scioccato da questo

tuo atteggiamento, cercai in quei pochi secondi di rendermi

conto di cosa fos se accaduto o cosa avessi combinato,

di cosa sta va adesso succedendo. Nel frattempo vidi

Peg-ghie venire verso di me con un atteggiamento di comprensione

e nello stesso tempo scuotendo il capo come

gesto di disapprovazione... intuii, ma soprattutto mi resi

conto che era giunto il momento di mettere le cose in chiaro,

per il bene di tutti.

Tu e Pegghie eravate lì, davanti a me, ed io ave vo molta

paura, perché non volevo rifiutare né una né l’altra, ma ora

ero costretto a farlo. Non volevo che l’emozione mi tradisse,

chiede vo in fretta alla ragione di trovare la via d’uscita,

ma il tempo era decisamente poco.

“Allora?...” chiese Pegghie con una certa im pazienza,

richiamandomi all’urgenza di questa decisione.

“Allora?!...” richiedesti anche tu, con uno sguardo

severo e imperturbabile, che non lascia va intravedere altro

che il vicino trionfo della verità.

Mi sentivo come tra due giudici, imputato; avrei voluto

dichiararmi innocente, ma sapevo bene di essere colpevole,

e che anche voi mi consideravate già tale.

Racimolando in fretta le mie poche capacità di persuasione,

cercai di utilizzarle nel modo miglio re: “Ragazze,

guardate che io non vi ho mai prese in giro.

Dai, Pegghie, lo sai che ti voglio bene e ti dico sempre

tutto di me con sincerità... sai che puoi fi darti di me e non

potresti mai affermare che io ti ho tradita nella nostra amicizia.

Sai anche che so no stato io stesso a dirti di non illuderti

con me ri guardo al fatto di considerarci amanti,... ma

anche che non avremmo mai smesso per questo di es sere

amici. Cosa c’è ora? Sembra che tutto si sia al-1 ‘improvviso

complicato ! ”. Pegghie sembrava allora essersi calmata

un po’ ; si rivolse a me con tono pacato, ma deciso:

“Dille cosa pensi di lei, da che parte stai... non puoi sta re

con me e con lei... devi scegliere, scegli!”.

E da quelle sue parole capii che lei, Pegghie, non si era

ancora rassegnata a volermi bene semplice mente come ad

un amico; per lei io potevo essere ancora l’amante, l’unico,

il “numero uno”, co me mi aveva una volta scritto.

E anche se io ora la consideravo amica, buona amica,

amica profonda, ma nulla di più, lei in questo momento

sperava ancora, attendeva nel suo cuore innamorato di

sentirsi dire che la amavo, che ero ancora innamorato di

lei, che adesso sceglie vo lei. I suoi occhi tremavano nell’attesa

della mia risposta, sapendo che ciò che avrei detto

rivolto al la sua amica del cuore avrebbe potuto essere so -

prattutto per lei, per il suo cuore.

Ma non poteva essere così: Pegghie era per me, lo sperimentavo

nella vita di ogni giorno, un’amica vera sì, ma

non l’amavo come amavo invece te, lì di fronte, che io

consideravo essere la gioia, l’a more, la somma di tutte le

realtà più belle che sta vo vivendo e che proprio in te ora

vedevo sempre più chiaramente presenti.

Anche in quel momento, mentre parlavo con Pegghie,

avrei voluto parlare con te, mentre guardavo Pegghie,

avrei voluto guardare te... te sol tanto...

Rispondendo a Pegghie, con il tono della voce e lo

sguardo che rivelavano un immenso dispiace re ma anche

un’affermazione sicura, pacatamente le dissi: “lo sai già

che io la amo,.. .io amo lei... ” e a te rivolsi il mio sguardo,

e ti vidi guardare in basso, e ti sentii più che mai vicina,

presente , vita nella mia vita.

Non potevo più adesso non chiamarti amore, dopo aver

così decisamente schierato la mia vita per te, dopo aver

posto me stesso di fronte a questa netta posizione, dopo

essermi compromesso fino a questo punto. Pegghie per fortuna

aveva capito che il destino era troppo forte per essere

guidato dai nostri sentimenti e dalla nostra ragione, e lo

aveva accetta to con rassegnazione e anche con una certa

serenità. Da quel giorno infatti mi aveva sempre aiuta to: mi

consigliava e mi richiamava; aiutava, consigliava e richiamava

anche lei, e in questo modo faceva sì che noi due

potessimo incontrarci sempre più serenamente.

L’amicizia con Pegghie, che temevo fosse stata compromessa,

era ora invece più profonda, per ché sentivo che

Pegghie era il mezzo di collega mento con lei, con il mio

amore, e contemporaneamente costituiva il mezzo di collegamento

del l’amore di lei per me.

Pegghie era quindi l’occasione per continuare a vivere

questa esperienza con lei in un modo sempre più assurdo,

ma anche per rendere questa avventura sempre più unica,

affascinante, irripetibile, eccezionale.

Al ritorno da Sounmont le cose continuavano a procedere

sempre secondo quella mia dichiarazione: sentivo di essere

sempre più innamorato, sempre più pazzo di lei. Da un

lato, volevo evitare di stare con lei per ché mi sentivo un adolescente,

come lei, e mi ripetevo: che stupido che sono!

Tu non sei più un ragazzine, renditi conto, de vi essere

te stesso, devi finirla con questa storia... e così era la ragione

che chiedeva al mio cuore di seguirla.

Nello stesso tempo però la cercavo perché mi dicevo: è

una esperienza eccezionale! Cosa c’è di male?

Va beh, assurda, ma allora?

Non è forse così per ogni esperienza affascinante?

E tutti i limiti poi si possono superare, in fondo: l’età

diversa, le vergogne e le paure, la diversità nella scelta di

vita... e allora era il cuore che chiedeva alla ragione di seguirlo.

E in questo contrastato gioco tra ragione e cuore, io continuavo

a giocare con l’amore e a lasciar mi giocare da esso,

...e le cose procedevano. Ora però questo gioco per la mia

vita era sempre più importante, e sentivo il bisogno di dirlo

chiaramente anche a lei, di dirle che era una realtà profondamente

vera quella che io provavo per lei. E glielo scrissi.

Ti amo..; vorrei ripeterlo all'infinito!

Ti ho sempre amata, ti amo, sempre ti amerò.

Anche quando mi hai veduto arrabbiato, non lo sono

mai stato, mai ti ho dimenticata... nemmeno per un istante.

Mi dirai: perché ti mostravi arrabbiato se non lo eri?

Perché ti amo, sì, e per questo voglio che tu sia libera, non

condizionata dalla mia vita. Per questo ho cercato di stare

lontano da te e di allontanarti da me, ma non ci riesco... ti

amo! Ma tu come puoi amare ancora uno come me; non ti

accorgi che stupido che sono, che sofferenza ti procuro?

Ti amo!

Mi manchi dopo solo un istante che non ci sei; e quando

sono con te va a finire che ti faccio soffrire...

Sei affascinante... ti amo... sei nella mia vita e per questo

vorrei stare sempre con te, ma nello stesso tempo so

che non devo condizionarti, che devo lasciarti vivere, che

devi stare con i tuoi ami ci, non con me! Ecco perché mi

faccio vedere arrabbiato e lontano da te, anche se proprio

in quei momenti ti amo e ti sono vicino più che mai!

Ora ti chiedo solo di perdonarmi e di farti vedere o sentire

perché mi manchi da morire!

Ti amo!