Nedenthal

La Scuola Media di Gourly: in essa ho sempre vissuto

momenti belli, non solo di insegnamento, ma anche di

apprendimento... Essa era diventata, lo dico con un certo

rammarico perché teoricamente non avrebbe dovuto ave re

questa importanza, la vera parrocchia, l’ambiente in cui

mi sentivo valorizzato come prete, co me insegnante di

religione e, ancor prima, come persona.

L’amicizia con il Preside, con il quale il mio rap porto

era proprio come quello di un figlio verso il padre; i suoi

consigli sempre più utili, dosati, posati, ma nello stesso

tempo decisi. Quell’amico preside che aveva sempre

come primo riferimento, diceva lui, la ragione, che dove -

va essere la guida e la luce in ogni occasione; ciò sembrava

porre in secondo piano la fede, ma in effetti, lo riconoscevo

a poco a poco, dava ad essa fondamento e ragionevolezza,

rivelando perciò in lui una fede profondissima.

L’amico preside che, dietro a quello sguardo ap -

parentemente serio e formale, di fronte a me non riusciva

a trattenere il tremolio delle labbra che nascondevano il

sorriso. Qualche volta lo avevo an che sorpreso con gli

occhi lucidi, quando, di fronte a certi miei atteggiamenti

inaspettati nei suoi confronti, si era commosso.

Era sempre per me un aiuto e un modello; per questo

non mi dispiaceva giungere a scuola an che molto in anticipo,

per poterlo incontrare e parlare del più e del meno.

E quando lui non c’era la sciavo il mio saluto, scritto

stando seduto alla sua scrivania... un preside fortissimo!

Con i miei colleghi docenti, con i bidelli, in segreteria

mi sentivo poi veramente a mio agio, per ché comprendevo

che tutti loro, pur con metodi, mentalità, compiti e

obiettivi diversi, parlavano lo stesso mio linguaggio di

ricerca di umanità.

E così, tra battute e scambi di saluti e di impressioni

quando ci si incontrava, anche con loro la mia amicizia

non era mai venuta meno, anzi era di ventata sempre più

profonda.

Ricordo soprattutto l’amicizia con il collega Friedrich,

con il quale, all’inizio, si parlava, si scherzava, si raccontavano

barzellette, ci si incontrava per consultarsi circa il

metodo d’insegna mento e la compilazione dei registri.

Poi tu avevi cominciato a raccontarmi dei tuoi problemi,

delle tue ansie, delle tue attese, delle realtà più intime

della tua vita, proprio quelle più profonde e che io mai mi

sarei aspettato di sentir mi dire da te, anche se noi ci consideravamo

amici... è così che anch’io mi ero sentito in

grado di raccontarti tutto di me, di ciò che mi era capitato

proprio attraverso l’occasione della scuola...

Non mi sembrava vero: tre giornate attese con tanta trepidazione

da parte dei ragazzi ma anche da parte mia...

Per questi tre giorni mi ero proposto di rilassar mi per

riuscire a recuperare anche solo un po’ di quella serenità

che sentivo essersi allontanata da me e che avevo la possibilità

di riavvicinare ora, lontano da padre Noir per tre

giorni e due notti... sarei veramente stato di nuovo me

stesso...

Una gita che già quindi prima di partire si pro spettava

favolosa, eccezionale.

La meta: Nedenthal, con tappa a Chiaix e una visita ai

castelli medievali della zona.

L’orario di partenza, ore 5.30, aveva suscitato in classe

non poche lamentele; ma ora, al momento della partenza,

già tutti si trovavano presenti in piazza: i ragazzi, il preside,

la professoressa di francese, un’altra prof, alcuni genitori

dei ragazzi. Saluti; partenza e, dopo due ore, si era già

in piena autostrada.

I primi raggi del sole del mattino infastidirono chi sul

pullman fino ad allora era riuscito a continuare a dormire;

ma l’atmosfera rimaneva ancora quieta; si sentiva soltanto

il ronzio del motore e, ogni tanto, qualche sbadiglio.

Ne avevo allora approfittato per recitare le preghiere

del mattino, e, con calma, la mia parte del breviario.

Nella tarda mattinata arrivammo al castello di Nifes, lo

visitammo con l’aiuto di una guida loca le, poi il pranzo

presso un localino caratteristico e le prime foto... e di

nuovo sul pullman, diretti ver so il confine, per giungere,

attraverso il traforo del monte Blöm, in Nedenthal.

Ora l’atmosfera era vivace e frizzante: scambi di battute,

di scherzi, di impressioni circa il paesaggio che si

incontrava; qualche canto lasciato a metà, musica da uno

stereo portatile,... le solite realtà di ogni gita.

In questa atmosfera, parlando, ridendo, scherzando, i

nostri occhi si incontravano sempre più volentieri, tu

accovacciata sul sedile davanti al mio, girata verso di me,

col volto appoggiato al lo schienale.

Ci fissavamo negli occhi come facendo la gara di chi

per ultimo li distoglieva dall’altro; poi sempre come per

gioco, ora io, ora tu, sorridendoci dolcemente, sfioravamo

lentamente la lingua sul le nostre labbra, ripetendo inconsciamente

quel gesto che a scuola facevate spesso tra voi

sorridendo e che anch’io avevo imparato, senza mai aver

pensato al suo significato. Tu ti eri poi venuta a sedere

vicina a me e, ma no nella mano, sguardo dopo sguardo,

emozione dopo emozione, avevamo iniziato così questa

nostra avventura, senza quasi rendercene conto.

E mentre ragionavo ripetendo a me stesso che non era

un atteggiamento giusto quello che stavo vivendo in quegli

attimi con te, nello stesso tempo non ritenevo nemmeno

giusto il tirarmi indietro, il rinunciare a ciò.

Complice poi di queste situazioni fu il lungo tunnel

sotto il monte Blöm, che creando al suo inter no l’atmosfera

come dentro un film, ci faceva agi re senza più pensare

a nient’altro che a uno e al l’altra, come se il mondo attorno

non ci fosse più. Nedenthal: più che dalle realtà nuove

che si potevano trovare in quella terra straniera, restavamo

ammirati di noi, di cosa ci stava succedendo. E questa gioiosa

meraviglia ci spingeva a cercarci ancora, a camminare

sempre più vicini, a parlar ci, a starcene seduti lungo

tutto il viaggio mano nella mano, occhi negli occhi,

abbracciandoci con il sorriso e l’emozione sempre più

intensa, baciandoci con quelle prime parole affettuose che

ci sussurravamo sottovoce.

Non ritenevo assolutamente ciò che ci stava suc -

cedendo una realtà importante tra noi, come un amore...

pensavo solo che ciò che stava accadendo era la conseguenza

logica di quel mio proposi to, fatto alla partenza, di

vivere quei tre giorni se reno e spensierato.

Al ritorno, ripetevo tra me e me, tutto quanto tornerà

alla normalità di prima e anche quella stupidata che stavamo

vivendo sarebbe finita, ce la saremmo dimenticata

subito... intanto dovevo pensare a trascorrere felicemente

quei tre, ahimè, ora due giorni!

La serata in albergo prevedeva un pigiama-party, con

ritrovo inaugurale nella stanza dei ragazzi.

Non tutti c’erano, ma tu sì, c’eri; io, un po’ con -

siderando il fatto di essere un prete, un po’ per ver gogna,

decisi di non mettermi in pigiama.

E quella sera, tra una foto e l’altra, tra uno scherzo e un

tentativo da parte vostra di farmi fu mare bene ad ogni

costo, tra una canzone e una corsa insieme sulla terrazza,

più tardi avevamo ballato tutti... e io con te quel bellissimo

brano, Reality, che sul pullman durante il viaggio

sentivamo e risentivamo a turno, sempre più volentieri,

dal registratore con le cuffie che Kelie ci aveva prestato.

Ballare ora quel lento con te mi faceva essere un altro,

più vivo che mai: sentivo il tuo cuore, emozionato, battere

vicino al mio; abbracciandoci così delicatamente, il tuo

volto mi sfiorava come accarezzandomi, e regalandomi

quell’emozione intensa che mai prima di allora avevo provata;

lenta mente, questa nuova realtà mi affascinava sem -

pre di più.

Reality: quattro minuti e diciotto secondi di paradiso.

Quella gita ci faceva così incontrare in modo sorprendente

ed inaspettato, e la risposta a questo misterioso

destino che dirigeva in quel modo la nostra vita, lo sentivamo

entrambi, non poteva che essere affermativa.

E ciò nonostante il tuo pensare: ma è un prete..., e

nonostante anche il mio ripetermi continuamente: sono un

prete... lei è solo una ragazzina; non ci potrà mai essere tra

noi un autentico rapporto di amore... è tutta un’infatuazione

del momento, una cotta provvisoria per tutti e due,...

questo comportamento è assurdo, potrei essere suo padre

per età... deve finire subito questa storia, il più presto possibile!

Al ritorno tutto sembrava destinato a diventa re presto

come prima: ad attenderci c’era la vita normale e serena di

sempre a scuola, le solite realtà di ogni giorno, per me poi

la vita tormentata e sofferta con padre Noir... ora però

c’era anche il problema di mettere in chiaro le cose con te

dopo questa nostra esperienza.

Mi proposi di farlo al più presto...

Ti incontrai quella sera di una domenica della primavera,

quando il sole, ormai pallido, disegna va a malapena le

nostre ombre sul cortile dell’oratorio. La poca gente che

ogni tanto andava e veniva non ci recava disturbo e sembrava

non curar si di noi...

“Volevo parlarti di quello che è successo tra noi in questi

giorni”, iniziai, mentre tu avevi sorriso dolcemente,

come per invogliarmi a continuare senza preoccupazioni,

per mettermi a mio agio.

“Volevo dirti – continuai – che non è giusto quello che

abbiamo fatto, né per me, né per te”, e a questo punto i

tuoi occhi cominciarono a fissar mi con una evidente

apprensione... “sono stato uno stupido, io, che sono un

prete, a comportarmi così con te... scusami... tu non ne hai

alcuna colpa, sei una ragazzina. È colpa mia, ora dimen -

tica tutto e restiamo amici come prima, come eravamo

prima di questa gita. Va bene?”.

Ora i tuoi occhi apparivano lucidi per le lacrime che a

stento riuscivi a trattenere, e io guardandoti mi convinsi di

averti fatto un discorso proprio da prete, una predica, un

discorso di formalità, distaccato, che non sarebbe proprio

stato il caso di fare in quel momento e in quel modo...

Cercai di rimediare e di correggermi iniziando a parlarti

in un modo un po’ più dolce e persuasivo, scendendo un

po’ più al tuo livello: “E dai, non è poi la fine del mondo;

abbiamo fatto questa esperienza – e qui mi bloccai come

per deglutire, ma era l’emozione–che è stata bella, ma che

non possiamo certo continuare. Ci pensi? Io ti rovinerei, tu

rovineresti me, e questo non è giusto. Dai, accettiamo la

realtà così com’è e restiamo buoni ami ci, eh?...”.

Con quelle parole e con quel tono di voce che avevo

usato per persuaderti, mi sembrava di aver parlato come

una nonna quando cerca di fare capire al suo nipotino la

marachella che ha combinato, per tenerlo buono e convincerlo

a dargli ascolto perché lei ha ragione.

Tu mi avevi guardato per un attimo, poi, asciugandoti

le lacrime ormai scese, chinando il volto per terra, avevi

risposto con un filo di voce: “sì,... sì...”.

E ci eravamo salutati con un semplice ciao, co me se già

non ci conoscessimo più come prima.

E ti avevo seguita con lo sguardo fin dove ave vo potuto,

poi, facendo un profondo sospiro di dispiacere, di

sfogo e insieme di incoraggiamento a me stesso, avevo

pensato: eh, ...finalmente tutto è sistemato; certo, è stata

bellissima questa esperienza; ma adesso, tutto deve tornare

come prima!

E mi ero diretto in chiesa per la messa vespertina delle

diciotto, per confessare e aiutare padre Noir nella distribuzione

delle comunioni. Nei giorni seguenti avevamo l’occasione

di in contrarci spesso, sia a scuola, sia per rivedere

le fo to della gita, sia per trovarci a raccontarla al grup -

po della Company. E intanto mi rendevo conto che quella

realtà misteriosa ma tanto affascinante che esisteva tra noi

non diminuiva, secondo ciò che avevo stabilito io, anzi

cresceva sempre più sia per me che per te.

Sia in me che in te infatti notavo che c’era quel forte

desiderio di incontrarci, che noi tenevamo a freno, un po’

perché avevamo stabilito così, un po’ per vergogna di

fronte agli altri, un po’ per la paura che i nostri sentimenti

venissero scoperti, ...ma era una forza troppo intensa per

poterla control lare, e ora essa stava superando ogni nostra

decisione fatta, ogni tipo di vergogna, ogni barriera di

paura. Continuavo a meravigliarmi di me stesso, di co sa

mi stava succedendo; e nello stesso tempo di te, di come

potevi essere innamorata (la sola parola mi suonava stonata)

di me. Poi ripetevo a me stesso: ma non è vero!

È un sogno, vedrai che passerà; ma quando mi ritrova -

vo davanti i tuoi occhi dicevo: boh, chissà poi! e dubitavo

che fosse realtà. Si scombussolavano così, a poco a poco,

tutti i miei modi di ragionare, di vedere le cose, di vive re.

Sentivo in me che questa nostra realtà da una parte non

era da ammettere, ma nello stesso tempo nemmeno era da

rifiutare, perché essa andava certo oltre, ma non certamente

contro ogni logica.

In questo chiedermi continuamente in che cosa consistesse

quella realtà che mi guidava in questi momenti, cercai

aiuto da te, chiedendoti di esprimermi, per scritto –

perché in questo modo sarebbe stato più facile per te –

cosa tu ne pensassi di questa assurda, folle, incomprensibile,

ma entusiasmante esperienza che ci ritrovavamo a

vive re insieme.

E tu allora mi avevi risposto così:

Ormai sono trascorsi quasi due mesi da quei tre stupendi

giorni, e da allora la mia vita si può dire che sia cambiata.

Prima pensavo a te come ad un amico ma, con il passare

del tempo, ho capito che i sentimenti che provavo verso

di te crescevano di giorno in giorno e, tutt’ora, mi rendo

conto che diventano sempre più intensi, sempre più profondi,

sempre più reali ed unici.

Fino a qualche giorno fa credevo che tu fossi la fonte

della mia più grande felicità, ma, nello stesso tempo, della

mia più totale disperazione.

Ora mi rendo conto che non c’è niente di male se provo

questo sentimento così intenso verso una persona che, tuttavia,

per la scelta che ha fatto, non dovrebbe essere amata

e non dovrebbe amare. Non penso che parlare sia sufficiente

per esprimere quello che provo nei tuoi confronti,

forse un’unica parola riesce a dare meglio l’idea, an che se

sono convinta che non c’è sostantivo che riesca ad esprimere

una cosa così grande; questa parola è amore.

Forse ti sembrerà un vocabolo un po’ troppo pe sante,

troppo grosso, ma credo che sia veramente amore quello

che provo quando ti penso, quando ti parlo, quando ti

guardo, quando siamo mano nella mano, quando, raramente,

ci abbracciamo. Probabilmente però non sono

maturata abbastanza per capire se ciò che sento è veramente

amo re; chissà, magari si tratta di una fase di breve

durata, che comunque, per la sua intensità ed unicità,

penso che costituirà sempre una delle esperienze più preziose

della mia vita. Probabilmente molte volte ti darò

l’impressione quasi di fregarmene della nostra amicizia,

ma devi capire che è difficile e nemmeno corretto mo -

strare interesse per te in presenza di altre perso ne.

Anche quando ci troviamo da soli vorrei dirti molte

cose, che forse tu non immagini neppure, ma non riesco ad

esprimere ciò che provo, ed è an cora più arduo farlo con

un prete, nonostante ci si conosca piuttosto bene.

Da quando sei entrato a far parte della mia vita hai

lasciato una traccia indelebile, ma soprattutto hai segnato

il mio cuore, questo cuore che hai sconvolto ma che, nello

stesso tempo, hai reso colmo di gioia, colmo di amore.

E così, mi rendevo conto che ciò era anche per te molto

importante, più di quanto io credessi, e avevo letto e riletto

più volte la tua lettera, ogni volta ripetendo a me stesso:

non può essere vero, no, è soltanto un sogno...

Poi, a chiedermi tante cose, e a riflettere, anche con un

certo timore, per le future possibili conseguenze di questo

nostro rapporto, poi la ricerca di una soluzione... e il mio

sguardo che si aggirava nello studio, sempre più smarrito,

incrociò il Crocifisso... Tu, che sorridevi, anche in quel

momento... io no, non risposi al tuo sorriso, ma, preoccupato,

con gli occhi fissi su di Te, cominciavo a pensare a

tutte queste nuove imbarazzanti realtà che stavo ora vivendo,

a come affrontarle e risolverle al più presto.