Gourly

Giovedì 15 aprile, quest’anno.

Si sono un po’ meravigliati quelli della tipografia quando,

dopo i primi accordi per la stampa del libro, si sono

sentiti dire che il testo non era ancora scritto, ma era solo

nella mia mente. L’amministratore continuava a parlare

con me, ma dentro di sé, ci scommetto l’osso del collo,

pensava di avere a che fare con un prete un po’ matto e che

ne stava combinando una delle sue...

Io stesso, mentre poco prima lo attendevo in quel

moderno salottino, mi chiedevo se fosse an cora il caso di

fare questo passo o non invece di la sciare lì tutto. Fissavo

la porta d’ingresso ed ero quasi tentato di uscire abbandonando

tutto il pro getto, ma a trattenermi era una certezza

della quale ancora oggi mi meraviglio e che non conosco

pienamente; quella certezza che mi aveva condotto lì e mi

accompagnava fin dall’inizio in questa esperienza certo

assurda e folle, ma, inaspettatamente, anche tanto fenomenale.

Nel tornare ripensavo all’entusiasmo di quando, una

sera d’agosto di sette anni fa, giunsi, giovane prete, a

Gourly.

Durante la messa nella quale veniva celebrato un ufficio

funebre, il vicario coadiutore padre Andrew mi aveva

presentato ai fedeli, invitandoli a pregare per me e augurandomi

serenità e gioia nel servizio pastorale che mi

accingevo a svolgere in paese.

Dopo alcuni giorni già mi ero fatto alcune impressioni:

un paese tranquillo e simpatico, attorniato da sorridenti

colline, dove la gente era aperta, affabile, alla buona e con

la quale riuscivo con facilità a dialogare, per cui intravedevo

subito possibile costruire amicizie e rapporti di simpatia.

Il centro del paese aveva come cuore la sua stupenda

chiesa, che a me piaceva moltissimo non sol tanto per le

sue decorazioni e la sua architettura, ma soprattutto per il

fatto che, quando in essa non c’era nessuno, io potevo

serenamente passeggia re in su e in giù guardando in alto,

agli affreschi che richiamavano le glorie del Paradiso;

suonare al l’armonium con ogni libertà di esecuzione;

cantare facendo doppie voci e provando nuovi acuti e

nuovi bassi; camminare in equilibrio sulle balaustre e

compiendo anche qualche piccolo salto, riaccendere poi

tutte quelle candele che il sacrista Bepino aveva spente,

subito dopo la celebrazione, per evitare che, consumandosi

troppo presto, non potessero essere poi più riutilizzate.

In quella chiesa mi sentivo subito a mio agio: sentivo

Dio lì vicino, gli parlavo guardandolo ne gli affreschi; mi

rivolgevo a Lui tra una nota e l’altra, lo invitavo a cantare

con me, facendo la seconda voce, e mi pareva quasi di sentirlo;

comunicavo con Lui quando, camminando forse

troppo veloce sulle balaustre, sperimentavo quel ri chiamo

dal fondo della coscienza: sta’ attento, che cadi!. E io gli

dicevo: non con Te! e mi bloccavo di colpo sorridendogli,

là al tabernacolo, e sentivo anche Lui sorridere.

Mi immaginavo poi lo facessero anche i due angioletti

di marmo che gli stavano a fianco in atteggiamento di preghiera;

anche loro in quei momenti, sembrava si concedessero

volentieri quella gioconda distrazione.

In questa chiesa imparai poi a pattinare con le rotelle...

era uno spasso! Mentre il Bepino strofinava con lo straccio

bagnato in una parte della navata, rimanevano altre

due zone che io potevo per correre, con il suo permesso,

però a velocità ridotta, per potermi controllare con la sterzata,

al limi te del pavimento ancora bagnato.

Ma quando poi tutte le parti erano asciugate, allora era

veramente il paradiso: velocità quasi illimitata,... dopo al -

cune cadute che rientrano nell’arte del pattinaggio a rotelle,

dopo alcuni schianti contro il confessionale che si trovava

proprio sul luogo dove bisognava sterzare e non sempre

si riusciva, giunsi a percorrere in almeno venti modi

tutta la navata della chiesa. Il tutto durava per circa un’ora,

comprese le so ste di alcuni minuti parlando con il

Crocifisso, dopo aver ripreso fiato.

Ero poi riuscito, un giorno, anche a salire su, fi no sopra

l’altare di marmo, in quel luogo dove nel le solennità veniva

esposto il Santissimo per l’adorazione. Ero entrato tra

una statua e l’altra e mi ero accovacciato ben bene; e da

questa specie di nicchia avevo poi dato risposta solennemente

alle preghiere di quelle vecchiette che, quella sera,

un po’ prima del solito erano entrate in chiesa e da laggiù

avevano affidato al Signore tutti i loro acciacchi e dispiaceri.

Questa di Gourly era una chiesa che mi aiuta va a sorridere,

a stare sereno, a pregare sempre con gioia, in ogni

momento. In questa chiesa posso di re di aver realizzato

tutti i miei desideri, tranne uno: quello di rimanere in quella

chiesa per una notte intera.

Già, chissà quali emozioni e quali gioie avrei potuto provare

se vi fossi riuscito; ma nonostante avessi progettato il

tutto con cura, avendo anche informato il Bepino, che, complice,

aveva acconsentito a lasciarmi chiuso nella chiesa per

una notte, questo desiderio non riuscii a vederlo realizzato.

Di fronte alla chiesa la spaziosa piazza del centro

paese, luogo dei bar, dei negozi, degli uffici. Dopo i primi

tre giorni mi accorsi di averli già vi sitati tutti quanti, constatando

che non erano poi tanto numerosi... ma mi resi

conto anche che avrei dovuto rivisitarli meglio, senza fretta,

senza formalità, un po’ più appassionatamente e con

più fantasia, con molta umanità e sorridendo; mi convinsi

che soprattutto così dovevo cominciare a frequentare quei

luoghi, proprio come quando mi trovavo in chiesa da solo.

E fu così che iniziai, una mattina a caso, dal Su -

permarket di alimentari: “ciao a tutti - dissi entrando dalla

vetrata con la scritta: uscita – sono il nuovo curato!” e feci

un sorriso un po’ forza to, forse per il fatto che nessuno si

era interessa to subito a questo mio saluto, forse perché io

stesso ritenevo in quel momento poco convincente quel

mio modo di fare. La cassiera, una signora sui sessant’anni,

bianca di capelli, s’era voltata solo per un attimo fis -

sandomi con poca meraviglia e come per formale educazione,

poi aveva ripreso a battere sui tasti della cassa i

prezzi dei prodotti che la cliente ave va acquistati.

Non devo scoraggiarmi, non devo! – pensai ve -

locemente dentro di me – questa è la via giusta, devo continuare

così!, e mentre pensavo una soluzione, gli occhi si

posarono sulla cassa 2, alla quale non stava seduto nessuno

dei dipendenti... due passi e mi ritrovai seduto davanti

alla tastiera; un rapido sguardo a quei tasti, come per una

prova veloce, poi, rivolgendomi alla fila di carrelli che si

snodava dietro la cassa 1 dissi con tono deciso: “Sotto a

chi tocca, avanti!”.

Ma nessuna delle clienti si mosse, si limitarono tutte a

uno sguardo ironico, poi, scambiandosi quel sorriso che

voleva essere un gesto di compassione nei miei confronti,

cominciarono a commentare a bassa voce: “Al sarà mia ü

pret chel lé! Ada invece de stà ‘n ciesa a pregà, dol và!

Cosa fall, a lü?”, ed altre espressioni simili che, dette in

quel momento, sembravano essere una sentenza: hai sbagliato

tutto! Quello che devi fare ora è di chiedere scusa e

tornare a casa alla svelta!

Mentre mi stavo ormai convincendo della mia disfatta,

ecco che una signora senza carrello improvvisamente

sbucò dalla fila delle clienti e si av vicinò con passo frettoloso

e quasi nevrotico alla cassa 2.

“La salvezza!” dissi sottovoce, ringraziando il Signore.

Era una donna sui cinquant’anni e indossava una berretta

di quelle fatte di lana, un soprabito verde sporco, un

foulard di seta a fiori attorno al collo, pantaloni con ben

evidenziata la piega. Una di quelle che, a giudizio della

gente, sono delle svampite ed anche un poco ritardate...

“Mi faccia alla svelta il mio conto, che ho fretta” disse in

un tozzo dialetto quasi incomprensibile. Una scatola di

zucchero 1.330, mezzo litro di latte 1.150, un sacchetto di

palatine 500: fu l’inizio della mia carriera di cassiere.

Uscì poi in gran fretta, abbracciando i tre pro dotti, e

dovetti rincorrerla per un bel tratto di strada, perché

dimenticò lo scontrino fiscale.

“Signora, ha dimenticato...”; “fà niente” rispose lei

ormai lontana. Tornando alla cassa mi trovai di fronte una

fi la di carrelli e le donne che, prima sorridenti, ora erano

un po’ impazienti, con l’atteggiamento di chi deve andarsene

subito per la fretta e col volto che senza parlare sembrava

dirmi: “su, un po’ veloce!”.

Quando, altre volte, tornavo alla cassa, capivo com’era

importante e utile ascoltare e parlare con la cassiera, con

tutte quelle mamme, zie e nonne che, tra uno yogourt, un

etto di cotto e un pezzo di formaggio, quando non c’era la

fila, mi raccontavano volentieri di loro, della famiglia,

delle gioie, dei problemi, mi rimproveravano, mi face vano

osservazioni e richiami dicendo che noi preti potremmo

fare e non facciamo,... chiedendo poi cosa ne pensassi io

al riguardo. Mi accorgevo come quella semplice cassa era

un banco di catechismo dove imparavo la fede vissuta e

nello stesso tempo costituiva un piccolo pulpito dal quale

venivano ascoltati volentieri i piccoli sermoni interrotti

solo dal “pit” dei tasti premuti e dall’uscita tintinnante

dello scontrino del la spesa.

Fu poi la volta del tabaccaio, del benzinaio, del fruttivendolo,

della cartoleria, del negozio di abbigliamento nel

quale m’ero posto accanto al manichino del bimbo e della

mamma, e ciò era stato occasione di una vivace discussione

pro e contro il matrimonio dei preti, alla quale erano

intervenute varie persone.

Entrando nei bar per il solito caffè imparavo, oltre che

a dire una preghiera ogni volta che sentivo bestemmiare,

invece di alzarmi e fare osservazioni o, secondo l’istinto,

volendo scazzottare chi stava imprecando, che noi preti

abbiamo buon tempo quando predichiamo alla gente per

mezz’ora e più senza lasciarli fiatare; che non si può pa -

ragonare il tempo trascorso a sentire una predica con il

tempo che si passa giocando a carte: alla predica non si

può fiatare e si deve stare fermi, giocando a carte invece si

può parlare, bere qualcosa, ridere, muoversi... sono due

realtà assoluta mente diverse, e quindi certi preti come

potevano così facilmente considerarle uguali?

Mi convincevo così che non erano tanto i luoghi ad

essere buoni o cattivi, quanto era buono o cattivo il cuore

di chi entrava in quei luoghi e li rendeva tali.

Tra un negozio e l’altro, tra un ufficio postale, uno bancario

e uno comunale si incontrava la gente, con le sue

diversità, ma ognuno si mostrava sempre disponibile,

aperto, simpatico. Ero contento che il vescovo mi avesse

destina to a Gourly, perché tra quella gente mi sentivo ve -

ramente sacerdote, mandato dal Signore, ma nel lo stesso

tempo anche uomo come loro, come se fossi uno delle loro

famiglie, uno dei loro figli. Da qualcuno a volte sentivo

dire : “ol me sccièt ! ” e mentre mi voltavo e cercavo il

loro figlio mi rendevo conto che si riferivano a me, nientemeno

che a me.

Era questo un paese dove mi trovavo sempre più a mio

agio, proprio come quando mi trovavo in chiesa da solo.

Presso la chiesa sorgeva l’Oratorio, il luogo del la ricarica:

tornando dalla piazza o da qualche altro luogo, tappa d’obbligo

in oratorio, o per se dermi per un po’ su un tavolino

di pietra nel cortile, o per tirare le orecchie a qualche

malcapitato, o per giocare con qualche ragazzine, facendo

sempre qualche scherzo, o per parlare del più e del meno

con i ragazzi, con le ragazze, con chi capitava di passaggio.

E quando nell’oratorio non trovavo nessuno, una controllatina

per vedere se qualcosa si trova va fuori posto; ad

esempio, se i gabinetti erano in ordine e ancora puliti...

altrimenti, una bella lavata con il getto della canna dell’acqua

a tutta for za. La sera poi immancabile giretto al barettino

per incontrare e parlare con qualcuno.

Questi erano i momenti più belli.

C’erano certo anche i momenti “seri” in oratorio: riunioni,

tavole rotonde, catechismo, istruzioni e incontri,

momenti di preghiera; ma, chissà perché, pur ammettendo

che queste sono le cose più importanti, non mi sono rimaste

molto impresse nella memoria, anzi, mi sfuggono.

Nei momenti dei ritrovi di massa, quando l’oratorio si

colmava di persone, ad esempio a Car nevale o nelle feste

del paese, finivo poi per esse re anche un po’ triste: avevo

di fronte tanta e tan ta gente, ma per i soliti e banali motivi

organizzativi, correndo qua e là per una cosa o per l’altra,

succedeva che incontravo tutti e nessuno nello stesso

tempo. Sentivo che proprio lì mancava il dialogo, la co -

municazione profonda, e avevo come la nostalgia degli

incontri semplici e sinceri.

Dicevo a tutti ciao e poi anche quattro stupida te, auguravo

buon appetito a chi stava mangiando qualcosa, facevo

un richiamo a qualche ragazzo indisciplinato, due battute

spiritose; parlavo con uno e sentivo un altro, mentre

ascoltavo quel lo che mi stava chiamando.

Al termine di queste feste, stanco e ubriaco di parole, di

richiami, di consigli e di birra, me ne tornavo a casa barcollante

e contento che tutto si fosse concluso, e convinto

che la quotidianità era la festa più bella che ancora non

eravamo capaci di recuperare.

In questo paese venivo aiutato a vivere come uno di

loro; io, il presbitero, il pastore, la guida, mi sentivo sempre

più in cammino con loro, accanto a quella gente.

Ciò era bello... non stare a guardare che camminino le

pecore, né dire loro di camminare, ma camminare con

loro. Col passare del tempo, non solo aumentava sempre

più in me la gioia di stare a Gourly, ma addirittura sentivo

già la nostalgia di quando, un giorno, me ne sarei poi

dovuto andare. Ero certo che gente così buona non ne

avrei più trovata, e mi potevo considerare veramente

fortu nato ad aver trovato un ambiente così!

Ero entusiasta!